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Cicerone: Sulla natura degli dei   I
LIBRO I
1. Tu ben sai, o Bruto, che, se nel campo della filosofia molti problemi non sono ancora stati sufficientemente ed adeguatamente approfonditi, particolarmente complesso e oscuro si presenta quello relativo alla natura della divinità, la cui soluzione, a parte l'eccezionale interesse spirituale, è indispensabile se si vuol imprimere una sicura direttiva alla vita religiosa. Tanto varie e discordanti sono le opinioni espresse dai piú eminenti studiosi su questo argomento da costituire un solido fondamento al principio secondo il quale il primo e fondamentale incentivo all'attività speculativa sarebbe la mancanza di cognizioni sicure, sí che con singolare oculatezza di metodo procederebbero gli Academici che negano l'assenso a tutto ciò che risulta avvolto nel dubbio e nell'incertezza. Che cosa v'è di più sconveniente dell'avventatezza nei giudizi? Si può forse immaginare qualcosa di più sconsiderato e di piú alieno dalla dignità e serietà di un pensatore che il coltivare false opinioni o il sostenere con sicurezza ciò che non è ancora stato adeguatamentecompreso e ponderato?
2. Così, nella nostra questione, tanto per fare un esempio, se i piú sono dei parere che gli dei esistono (il che è estremamente verosimile e tutti siamo portati a tale conclusione per impulso naturale) non manca chi, come Protagora, esprime qualche dubbio, senza dire che qualche altro, come Diagora di Melo e Teodoro di Cirene, ne nega nel modo piú assoluto l'esistenza. Ma anche coloro che non la negano sostengono teorie tanto diverse e contrastanti che sarebbe troppo lungo enumerarle tutte. Molto si discute sull'aspetto esteriore degli dèi, sull'esatta localizzazione della loro dimora nonché sul genere di vita da essi condotto, ed estremamente divergenti sono al riguardo le tesi dei vari filosofi.
Ma la questione sulla quale piú si discute e piú aspro è il dissenso è quella se gli dèi se ne stiano inattivi, senza curarsi affatto dei supremo governo dell'universo, o se, il contrario. essi abbiano in origine presieduto alla creazione e organizzazione del tutto senza cessare, per tutta l'eternità, nella loro diuturna opera di reggitori e animatori dei mondo.
Se tale questione non viene risolta, l'umanità è destinata inevitabilmente a dibattersi in uno stato di estrema confusione e di totale ignoranza.
3. Vi sono oggi e vi sono stati in passato dei filosofi che hanno negato nel modo più assoluto ogni intervento degli dei nelle vicende umane. Ma se la loro opinione è nel vero, che significato potrà mai avere la pietà, la devozione, la pratica religiosa? Il dovere di offrire questi tributi alla maestà degli dèi con cuore puro ed incontaminato è valido solo a condizione che essi ne siano a conoscenza e che qualcosa venga offerto in contraccambio dagli dei al genere umano.
Ma se gli dèi non possono e non vogliono offrirci il loro aiuto, se si disinteressano totalmente di noi e non si accorgono della nostra condotta, se non vi può essere alcun rapporto fra essi e la vita umana, che ragione v'è di offrire agli dèi opere di culto, onori e preghiere? Nessuna virtù può ridursi ad una fittizia esteriorità né tanto meno la pietà, la cui eliminazione comporta necessariamente con sé quella di ogni devozione e pratica religiosa, soppresse le quali il disordine e il disorientamento non possono non impadronirsi della vita umana.
4. E non escludo che, una volta tolta di mezzo la pietà verso gli dèi, scompaia insieme anche ogni lealtà nei rapporti sociali e quella che è la più eccelsa fra le virtù, la giustizia.
Vi sono poi altri filosofi, e questi di grande e chiara fama, secondo i quali il mondo sarebbe nella sua totalità retto e governato dalla razionale guida di menti divine. Né a questo solo si limiterebbe la loro azione provvidenziale, ma si estenderebbe alla vita stessa degli uomini. P, infatti loro opinione che le messi e gli altri frutti della terra, le vicende del tempo e delle stagioni e le variazioni climatiche che fanno crescere e giungere a maturazione tutto ciò che il suolo produce, siano un dono concesso dagli dèi all'uman genere, e le molte argomentazioni che essi adducono (e che verranno esposte in questi libri) sono tali da far quasi ritenere che siano stati proprio gli dei ad escogitarle ad uso degli uomini. Contro costoro ha polemizzato a lungo Carneade sí da destare nell'animo di alcuni ingegni non ottusi il vivo desiderio di appurare la verità.
5. In realtà non v'è argomento su cui vi sia maggior disaccordo fra gli indotti non meno che fra i dotti; e tanto varie e discordanti sono le loro opinioni, che potrebbe darsi il caso che nessuna sia esatta, non, ad ogni modo, che lo sia piú d'una.
Su questo argomento mi sento in grado, ad un tempo, e di acquietare i critici disposti ad una serena e benevola valutazione e di confutare i detrattori ostili e intransigenti, sí da indurre questi a pentirsi delle loro critiche, quelli a rallegrarsi di aver imparato qualche cosa di nuovo: sta di fatto che chi imposta serenamente le sue critiche va semplicemente illuminato, chi si abbandona ad una polemica aggressiva va senz'altro rintuzzato con molta energia.
6. Debbo del resto constatare che in seguito alla pubblicazione da parte mia di un considerevole numero di libri in un breve lasso di tempo, si è fatto molto chiasso da parte di gente che in parte si meravigliava dell'improvviso sorgere in noi della passione per la filosofia, in parte desiderava conoscere la nostra precisa opinione su ogni singola questione.
Ho dovuto anche accorgermi che per molti era oggetto di grande stupore il fatto che io apprezzassi soprattutto quella filosofia che, a loro parere, toglierebbe luce alle cose quasi avvolgendole nelle tenebre della notte e che mi facessi inopinatamente fautore e sostenitore di una scuola abbandonata da tutti e già da lungo tempo lasciata in disparte.
In realtà né ci siamo dedicati tutt'a un tratto allo studio della filosofia né scarsi furono la cura e l'impegno da noi ad esso dedicati fin dalla prima adolescenza: se pochissimo tale attività si notava dall'esterno, cionondimeno essa era intensissima, come dimostrano le nostre orazioni tutte permeate di pensiero, le nostre amicizie con altissimi rappresentanti della cultura, che sempre frequentarono la nostra casa, l'istruzione ricevuta da quegli eminenti maestri che furono Diodoto, Filone, Antioco e Posiconio.
7. E se e vero che tutti gli ammaestramenti della filosofia hanno un rapporto con la vita, ci sembra di aver sempre uniformato il nostro comportamento sia in pubblico sia in privato alle prescrizioni di una dottrina razionale.
Che se poi mi si chiede per qual ragione mi sia risoluto così tardi ad affidare i frutti di queste mie meditazioni ad opere scritte, non v'è nulla di cui io possa più facilmente rendere conto. Stavo attraversando un periodo di forzata inattività e la situazione politica era tale da rendere inevitabile che una unica mente direttiva si curasse del governo dello Stato. Ritenni per tanto mio compito, in primo luogo per il bene stesso della Repubblica, farmi maestro di filosofia ai miei concittadini, nella profonda convinzione che, se temi di tanta importanza e profondità fossero entrati a far parte anche dei patrimonio delle lettere latine, molto onore e lustro ne sarebbe derivato alla comunità.
8. Tanto meno mi pento della mia decisione in quanto ben vedo in quanti ho acceso il desiderio non solo di apprendere, ma anche di scrivere. Non pochi, infatti, benché educati alla scuola dei Greci, non erano in grado di rendere í loro concittadini partecipi della stessa cultura per scarsa fiducia nella possibilità di esprimere in latino le nozioni apprese dai Greci: su questo punto ci sembra di aver fatto tali progressi, da non essere secondi ai Greci neppure per ricchezza e varietà di vocaboli.
9. Sono stato altresì indotto a questa attività dal profondo stato di prostrazione in cui mi aveva gettato una grave e fatale disgrazia. Se avessi trovato un rimedio più efficace, non sarei certo ricorso a questo. D'altro canto, il modo migliore per trarne qualche frutto fu quello di non limitarmi alla lettura di libri, ma di dedicarmi alla trattazione integrale della filosofia. Un approfondimento di questa disciplina in tutte le sue parti e in tutte le sue branche è facilmente realizzabile solo a patto che le varie questioni ricevano una trattazione completa; v'è infatti come una mirabile continuità, un mutuo rapporto di interdipendenza delle varie questioni fra loro che ci si rappresentano unite e collegate in unico sistema armonico e coerente.
Quanto poi a coloro che si danno da fare per conoscere la nostra personale opinione su ogni singolo problema, debbo dire che se ne preoccupano più dei necessario; nelle discussioni si deve cercare non il peso dell'autorità, ma la forza degli argomenti. Per lo più, anzi, l'autorità di coloro che si proclamano maestri è un ostacolo per quelli che desiderano imparare; sotto il suo peso cessano di esercitare la loro facoltà di giudicare e ritengono incontestabilmente valido il giudizio dì colui che apprezzano e stimano. Non è mia abitudine esaltare il metodo dei Pitagorici, dei quali si racconta che, se in una discussione veniva fatta un'asserzione e qualcuno chiedeva che venisse giustificata razionalmente, erano soliti rispondere: " l'ha detto lui ". Questo " lui " era Pitagora: tanto grande era il peso di un'opinione preventivamente fissata come vera, che l'autorità prevaleva anche prescindendo dalla possibilità di dimostrarla razionalmente
11. A coloro poi che si meravigliano della mia particolare propensione per questo metodo di ricerca mi sembra di aver dato una sufficiente risposta coi quattro libri degli Academica. Non ci siamo assunti la difesa di un indirizzo ormai abbandonato; con la morte degli uomini non perisce anche il loro pensiero, benché si faccia forse sentire la mancanza della loro illuminatrice presenza. Così, per esempio, il metodo di confutare, in filosofia, tutte le opinioni e di non formulare mai un preciso giudizio su nulla, metodo instaurato da Socrate, ripreso da Arcesilao e rafforzato da Carneade, ha avuto fortuna fino ai nostri tempi: ora mi accorgo che nella stessa Grecia manca quasi del tutto di seguaci. E di ciò io ritengo responsabile non già l'Academia, bensì la pigrizia degli uomini. Se infatti è già una grossa impresa studiare un singolo sistema filosofico, quanto più grande sarà quella di apprenderli tutti! Eppure ciò debbono fare coloro che, in vista della ricerca della verità, sì ripropongono di parlare a favore e contro tutti i filosofi.
12. Ammetto di non aver raggiunto la capacità di realizzare un piano cosi grande e difficile, ma dichiaro di essermi messo per questa via. Né d'altra parte è possibile che coloro che seguono tale metodo di ricerca manchino del tutto di una guida da seguire. Di ciò si è detto meglio e più a lungo altrove, ma poiché taluni paiono poco arrendevoli e tardi a comprendere, occorre spesso rinfrescar loro le idee. Non siamo di quelli che negano in assoluto l'esistenza della verità: ci limitiamo a sostenere che ad ogni verità è unito qualcosa che vero non e, ma tanto simile ad essa che quest'ultima non può offrirci alcun segno distintivo che ci permetta di formulare un giudizio e di dare il nostro assenso.
Ne deriva che vi sono delle conoscenze probabili le quali, benché non possano essere compiutamente accertate, appaiono così nobili ed elevate da poter fungere da guida per il saggio.
Ma e ormai tempo che per liberarmi da ogni critica, porti in causa le opinioni dei filosofi sulla natura degli dèi. E qui occorre che tutti siano chiamati a decidere quale di esse sia vera; e solo nel caso che sì verifichi un perfetto accordo o si trovi qualcuno che abbia effettivamente raggiunto la verità, io sarò disposto a tacciare di petulanza la scuola academica. Mi piace perciò esclamare, come nei Sinefebi "In nome degli dèi, di tutti gli abitanti di questa città e di tutti coloro che sono ancora nel fiore degli anni io chiamo, invoco, supplico, prego, imploro e scongiuro tutti" non già però a discutere su una bazzecola come "l'orribile delitto commesso in città", di cui ci parla con le lacrime agli occhi il personaggio della commedia: "Una cortigiana (sono sue parole) si rifiuta di accettare denaro dal suo ragazzo".
14. Ben altro senso ha il mio invito io chiamo tutti ad assistere alla discussione, a giudicare il caso e ad esprimere il loro ponderato parete sul sentimento religioso, sugli atti di devozione e di pietà, sul concetto di santità, sul cerimoniale, sulla promessa solenne, sul giuramento, sulla funzione dei templi, dei santuari e dei sacrifici solenni nonché sul valore degli auspici che ho l'incarico di presiedere personalmente li, (tutti argomenti questi che hanno un diretto rapporto col problema degli dèi). Sono certo che anche coloro che ritengono di possedere cognizioni sicure saranno costretti a cambiare parere quando si renderanno conto della grande disparità di opinioni che regna fra studiosi eminentissimi su una questione di così capitale importanza.
15. Ho avuto modo spesse volte di fare questa constatazione, ma la massima conferma l'ho avuta assistendo ad una dettagliata ed accurata disputa sulla natura degli dèi tenuta in casa dei mio amico Gaio Cotta. Erano le Ferie Latine e, per suo espresso invito, mi ero recato a fargli visita. Mi capitò di arrivare proprio mentre il mio amico, seduto nell'esedra, stava animatamente discutendo col senatore Gaio Velleio un uomo al quale in quel tempo gli Epicurei assegnavano un posto di primo piano fra i nostri concittadini. Era presente anche Quinto Lucilio Balbo, il quale si era cosi profondamente addentrato nella conoscenza delle dottrine stoiche, da poter essere paragonato coi maggiori esponenti greci di quella scuola.
Non appena Cotta mi vide: "sei giunto proprio al momento giusto" : - esclamò - "ho appena iniziata una vivace discussione con Velleio su una questione scottante alla quale anche tu avrai interesse a partecipare, dati i tuoi studi".
" Benissimo " - soggiungo io - "anche a me pare di essere arrivato al momento giusto. Vedo infatti qui riuniti tre campioni di tre diverse scuole. Se vi fosse anche Marco Pisone m, ogni scuola di quelle attualmente in auge avrebbe ora qui il suo rappresentante ".
Al che Cotta: " Se è vero ciò che Antioco dice nel libro che ha di recente inviato al nostro Balbo, non hai ragione di rammaricarti dell'assenza dei tuo amico Pisone: Antioco ritiene che ci sia un sostanziale accordo fra Stoici e Peripatetici e che le loro divergenze si riducono ad una questione di termini; vorrei anzi conoscere il parere di Balbo a proposito di quest'opera ".
" Se devo dirvi il mio schietto parere ", rispose quello " mi meraviglio assai che un uomo dell'acutezza di Antioco non si sia accorto che c'è un abisso fra la posizione degli Stoici e quella dei Peripatetici. Mentre i primi fanno dell'utile e dell'onesto due categorie nettamente distinte non solo nel nome ma anche nella sostanza, i secondi li riducono ad una unica categoria limitandosi a riconoscere fra essi differenze di quantità e, diciamo, di grado. Non ci troviamo dunque di fronte ad una futile questione verbale, bensí ad una sostanziale e profonda divergenza dottrinale.
17. Ma di ciò parleremo un'altra volta; ora, se siete d'accordo, torniamo alla discussione che avevamo iniziato ".
" Per me sono d'accordo ". riprese Cotta " ma perché il nuovo venuto - e si rivolgeva a me - conosca l'argomento della nostra disputa dirò che stavamo discutendo sulla natura degli dèi: un problema che a me è sempre sembrato oscuro e difficile quant'altri mai e a proposito del quale stavo appunto pregando Velleio di espormi l'opinione di Epicuro.
Perciò " - continuò - " vorrei che ora Velleio, se non gli spiace, riprendesse da capo la sua esposizione ". "Senz'altro " disse Velleio " benché, a quanto pare, costui sia venuto in tuo e non in mio aiuto: ambedue infatti" aggiunse ridendo " avete imparato alla scuola dei medesimo Filone a... non saper nulla ".
Al che io: " Che cosa abbiamo imparato da Filone se lo veda Cotta, ma io non voglio che tu pensi che io sia venuto per sostenere costui ma solo per ascoltare, senza pregiudizi o prevenzioni e con assoluta libertà di giudizio, non impegnato a sostenere ad ogni costo e mio malgrado una determinata tesi ".
18. Allora Velleio con l'orgogliosa sicurezza che contraddistingue i seguaci di Epicuro, preoccupato solo di non tradire la minima esitazione, così iniziò il suo dire, quasi fosse appena disceso dall'assemblea degli dei riuniti negli spazi fra i mondi di Epicuro. " State bene attenti, perché da me non udrete enunciare concezioni inconsistenti e fantastiche, non mi udrete parlare di un Dio artefice e costruttore dei mondo, come si legge nel platonico Timeo, nè della vecchia profetessa degli stoici, la Pronoeam (in latino diciamo semplicemente "provvidenza "), né di un mondo fornito di mente e di sensibilità, di una sorta di dio rotondo, ardente e ruotante intorno a se stesso. Costruzioni così prodigiose e strabilianti come queste non sono certo frutto della meditata discussione di veri filosofi, ma solo sogni di visionari.
19 Quale straordinaria facoltà di vedere con gli occhi dell'anima permise al vostro Platone di contemplate il grandioso processo seguito dalla divinità nella strutturazione e costruzione del mondo? Come ne vennero gettate le fondamenta? Quali strumenti di ferro, quali leve, quali argani vennero impiegati? Chi furono gli esecutori materiali? In che modo l'aria, il fuoco, l'acqua, la terra poterono sottomettersi ed obbedire alla volontà dei supremo architetto? Donde trassero origine quelle cinque figure geometriche dalle quali derivano tutte le altre forme create, così acconciamente predisposte ad impressionare il vostro spirito determinando in esso l'insorgere della sensazione? Sarebbe troppo lungo soffermarsi ad esaminare i singoli punti del sistema che sembra scaturire più da un desiderio che da una effettiva ricerca.
20. Ma il più grave si è che si consideri eterno un mondo che, non contenti di attribuirgli un'origine, si vorrebbe costruito dalle mani di un artefice. Pensi che possa ritenere eterno un essere che abbia avuto nascimento chi abbia anche solo gustato a fior di labbra la fisiologia, cioè la scienza della natura? Può forse esistere un corpo composto non suscettibile di scomposizione? Come immaginare che ciò che ha un principio non abbia anche una fine? Quanto poi alla vostra Provvidenza, o Lucilio, se essa si configura allo stesso modo di un architetto sono costretto a fatti le stesse domande di prima circa gli esecutori, gli strumenti, la intera progettazione ed esecuzione dell'opera; se invece ha un altro carattere, dovresti dirmi perché mai avrebbe costruito un mondo mortale e non immortale come il dio di Platone.
21. Ad entrambi vorrei poi fare una domanda: perché mai i costruttori del mondo si sono fatti vivi tutt'a un tratto, dopo aver dormito per tanti e tanti secoli? Anche se il mondo ancora non esisteva, non si può negare che già esistessero ì secoli. E per secoli non intendo quelli determinati dallo scorrere degli anni attraverso il continuo alternarsi dei giorni e delle notti. Ammetto che questi ultimi sono inconcepibili se non messi in dipendenza dal moto del firmamento, ma certo vi fu una sorta di eternità proiettata in un infinito passato, non divisa in periodi di lunghezza determinata, ma intelligibile se riferita a concetti spaziali. Che sfugge a ogni nostra capacità di comprensione la possibilità che esistesse un tempo qualsiasi quando il tempo stesso non esisteva.
22. Ora vorrei che Balbo mi dicesse perché mai per un cosi immenso periodo la vostra Provvidenza se ne sia rimasta inattiva. Vo leva forse risparmiarsi una fatica? Ma un dio non può avere di queste debolezze, ne ci sarebbe stata fatica alcuna, dal momento che tutti gli esseri erano Il pronti ad obbedirle, il cielo, il fuoco, la terra, i mari.
Che ragione aveva la divinità per alimentare in se un cosi vivo desiderio di abbellire il mondo con statue e luminarie come un edile qualsiasi? Se l'ha fatto per migliorare la sua abitazione, dobbiamo concludere che in precedenza era vissuto eternamente nelle tenebre come in un'oscura taverna. E supporremo dunque che in seguito si compiacque di quella varia bellezza di cui vediamo risplendere il cielo e la terra? Ma che piacere può provare un dio in cose del genere? Ammesso poi che lo provi, non avrebbe potuto restarne privo per tanto tempo.
23. A meno che, come sostiene la vostra scuola, queste cose non siano state compiute dalla divinità in vista degli uomini. Ma per quali uomini? Forse per i sapienti? In tal caso una così grande costruzione sarebbe stata eseguita per una categoria ben ristretta! Per gli stolti allora? Ma, in primo luogo, non v'era ragione per cui la divinità si creasse delle benemerenze verso degli sciagurati; in secondo luogo, con quale scopo l'avrebbe fatto? Tutti gli sciocchi, lo sappiamo, sono anche i più infelici (v'è forse qualcosa che si possa dire più infelice della stoltezza?), innanzitutto per il fatto che sono sciocchi, e poi perché nella vita vi sono tanti guai che i sapienti riescono a lenire con la compensazione dei vantaggi mentre gli stolti né li sanno evitare quando si presentano né li sanno sopportare quando ne sono afflitti.
Quanto poi a coloro che ci parlano dì un mondo fornito dì vita e di saggezza, non sono riusciti a chiarire quale aspetto possa assumere in concreto una sostanza spirituale dotata di intelligenza. Di ciò avrò agio di parlare fra poco:
24. per ora mi limiterò ad esprimere il mio stupore di fronte alla stupidità di coloro che attribuiscono forma sferica ad un essere fruente di vita immortale e felice solo perché, secondo Platone, non esisterebbe altra figura geometrica più bella di questa. Per quanto mi concerne, le mie preferenze vanno invece al cilindro, al quadrato, al cono, alla piramide. Inoltre, in che cosa consiste la vita di codesto dio rotondo? Certo in una rotazione tanto veloce, che non se ne può neppure concepire l'uguale. Ma come possa concepirsi in un tal genere di vita uno stato di equilibrio spirituale e di perfetta felicità non riesco proprio a comprenderlo. E perché mai ciò che ci molesta, anche se riguarda una parte minima del nostro corpo, non dovrebbe riuscire molesto anche alla divinità?
La terra infatti, per il fatto stesso di essere parte dell'universo, è anche parte di Dio. Eppure vediamo grandissime regioni della terra incolte e inabitabili, in parte perché bruciate dalla eccessiva vicinanza del sole, in parte perché irrigidite dalle nevi e dai ghiacci, data la sua eccessiva distanza. Ma se il mondo si identifica davvero con dio e queste regioni, in quanto parti del mondo, sono membra di Dio, saremo costretti ad ammettere l'assurdo che esse siano in parte preda di un ardente calore, in parte di un freddo eccessivo.
25. Queste le vostre dottrine, mio caro Lucilio. Per il resto mi riferirò al più antico dei vostri predecessori. Talete di Mileto che fu il primo ad affrontare siffatti problemi, affermò che l'acqua è il principio di tutte le cose, ma che fu una mente divina a generare tutti gli esseri dall'acqua. Ciò dicendo egli ammette implicitamente che gli dèi possano esistere indipendentemente da ogni attività sensitiva. Ma per qual motivo allora dotò l'acqua di un principio intelligente, dal momento che tale principio poteva sussistere senza materia? Di Anassìmandro è l'opinione secondo cui gli dèi avrebbero una loro origine, nascerebbero e perirebbero nel corso di periodi lunghissimi e andrebbero identificati con gli innumerevoli mondi esistenti. Ma come possiamo noi immaginare un dio se non eterno?
26. In seguito Anassimene identificò la divinità con l'aria ne fece un essere generato nel tempo, immenso, infinito e sempre in movimento: quasi che la divinità, cui compete non Un aspetto qualsiasi ma il più bello possibile, possa ridursi ad una informe massa di aria e che tutto ciò che ha avuto un'origine non debba necessariamente essere mortale.
Quindi Anassagora, discepolo di Anassimene, concepì per primo l'idea che l'ordinata disposizione dell'universo fosse dovuta al potere razionale di una mente infinita; e non si avvide che non può esistere un moto sensibile ed esteso all'infinito e che non può esservi sensazione se non quando il soggetto stesso ne sia colpito e la percepisca. Inoltre se codesta mente e, come egli ritiene, una sorta di creatura vivente, dovrà esistere un principio vitale interno che ne giustifichi la definizione. Ma cosa v'è di più interno della mente? La si dovrà allora immaginare rivestita di un involucro corporeo.
27. Ma poiché questo egli non lo ammette, la sua mente pura e semplice, priva di ogni contaminazione con una sostanza materiale che ne permetta una attività sensibile, sembra sfuggire ogni nostra capacità di comprensione. Il crotoniate Alcmeone poi, che attribuì natura divina al sole, alla luna e ai rimanenti corpi celesti, nonché all'anima, non s'accorse che attribuiva l'immortalità ad esseri mortali.
Infatti Pitagora che concepì un'anima diffusa e circolante in tutta la natura dalla quale trarrebbero origine le nostre anime individuali, non s'avvide che codesta separazione delle anime umane dall'anima universale provocherebbe una lacerazione della sostanza divina e che la quasi generale infelicità degli umani spiriti trarrebbe con sé l'assurda conseguenza che una parte della divinità possa essere infelice.
28. Come potrebbe poi l'animo umano ignorare qualcosa se fosse dio? E in che modo codesto dio, se esso non fosse altro che un'anima, sarebbe stato inserito e infuso nel mondo? In seguito Senofane sostenne che il tutto è unito alla mente e che, in quanto infinito, va identificato con la divinità. Per lui valgono le stesse obiezioni che per gli altri, per quanto si riferisce alla sua concezione della mente. Più gravi obiezioni van fatte al suo infinito non suscettibile né di sensazione né di alcun contatto con l'esterno.
Quanto poi a Parmenide, egli immagina un essere affatto fantastico simile ad una corona (che egli chiama appunto stephanen ), una sorta di circolo ininterrotto di luce infuocata avvolgente il cielo, cui attribuisce il nome di dio, senza che in esso si possa scorgere né l'aspetto di un dio né un moto sensibile; ed elaborò tutte le altre fantasiose teorie attribuendo natura divina alla guerra, alla discordia, alla passione e ad altre siffatte entità, benché soggette all'opera disgregatrice delle malattie, del sonno, dell'oblio e dei tempo. Lo stesso concetto di divinità estende anche agli astri, ma poiché abbiamo già avuto occasione di confutare questa concezione a proposito di un altro pensatore, si omette qui di parlarne.
29. Empedocle, sostenitore di molte altre errate teorie, l'errore piú grosso lo commette proprio a proposito degli dèi. Basti dire che assegna natura divina alle quattro sostanze di cui risulta composto l'intero universo. Eppure tutti sanno che trattasi di sostanze soggette alle alterne vicende della nascita e della morte e per di più prive di ogni facoltà sensitiva. Protagora poiché afferma di non avere alcuna chiara nozione degli dèi, di non sapere cioè né se esistono né se non esistono né quale ne sia la natura, sembra non avere il minimo sentore della loro autentica realtà.
Che dire poi di Democrito che annovera fra gli dèi sia le immagini e le loro traiettorie, sia quella sostanza che produce e invia le immagini stesse, sia la nostra intelligenza scientifica? Non cade anch'egli in un gravissimo errore?
Negando nel modo più assoluto che possa esistere qualcosa di eterno, data l'impossibilità di ogni essere di conservarsi nel Proprio stato, egli esclude a tal punto l'esistenza della divinità da non lasciarne sussistere la minima nozione. Quanto poi all'aria, di cui Diogene di Apollonia tratta come di una divinità, non si comprende come possa provare delle sensazioni o assumere l'aspetto di un dio.
30. Troppo lungo sarebbe poi il discorso sulle contraddizioni di Platone. Nel Timeo nega che si possa attribuire un nome al padre di questo universo e nelle Leggi è dell'opinione che non si debba indagare nel modo più assoluto sulla natura della divinità. Inoltre la sua affermazione secondo la quale la divinità sarebbe del tutto incorporea (i Greci usano il termine asomaton) è assolutamente incomprensibile: mancando di corpo la divinità verrebbe ad essere priva di ogni rapporto sensibile col mondo, di ogni capacità di prevenire gli eventi, di ogni sensibilità al piacere, di tutte quelle qualità cioè che noi riteniamo facciano tutt'uno con la nozione stessa di dio. Sempre nel Timeo e nelle Leggi afferma però che il mondo, il cielo, gli astri, la terra, le anime, sono altrettanti dèi e ad essi aggiunge quelli consacrati dalla fede tradizionale: tutte affermazioni che oltre ad essere di per sé evidentemente false, sono in flagrante contraddizione fra dì loro.
31. Anche Senofonte, pur usando una minor copia di parole, cade presso a poco negli stessi errori. Nei Detti di Socrate egli introdusse il filosofo nell'atto di sostenere che non occorre indagare sulla forma della divinità e che il sole e la nostra anima sono dèi, ma ora gli fa sostenere l'esistenza di un'unica divinità ora di più dèi e si dibatte così nelle stesse contraddizioni di Platone.
32. Antistenese, poi, nella sua opera (intitolata Il filosofo naturale ) sostiene che molti sono gli dèi nei quali crede la massa, ma che uno solo è, quello realmente presente nella natura e finisce così coi privare gli dèi di ogni potenza e di ogni reale consistenza. Non molto diversamente Speusippo, sulle orme dello zio Platone, identifica la divinità con una indefinita forza vitale preposta al governo dell'universo, nello sforzo di sradicare dall'animo umano la nozione stessa della divinità.
33. Aristotele nel terzo libro Sulla filosofia confonde insieme molti concetti in polemica col suo maestro Platone.
Ora attribuisce natura divina al solo intelletto, ora identifica la divinità col mondo, ora prepone al mondo un essere da esso distinto e gli assegna le funzioni di regolatore e conservatore dei moto universale mediante una sorta di rotazione in senso inverso, ora divinizza il fuoco celeste, senza accorgersi che il cielo è solo una parte di quel mondo che in altri passi egli ha definito come dio. D'altronde in mezzo a un così rapido movimento come potrà conservarsi uguale a se stessa codesta pretesa coscienza divina di cui si vorrebbe dotato il cielo? Dove troverà posto un cosi elevato numero di dèi se annoveriamo fra gli dèi anche il cielo? Si aggiunga che questo stesso pensatore fa della divinità un essere incorporeo ed esclude quindi che esso possa percepire la realtà e, conseguentemente, regolare con oculata saggezza la sua azione. Come potrebbe, inoltre, muoversi un mondo incorporeo o, muovendosi sempre, essere sereno e felice?
34. Né più perspicace si mostra il suo condiscepolo Senocrate: basti dire che in un suo trattato in più libri sulla natura degli dèi non è reperibile una sola rappresentazione sensibile della natura divina. Si limita a fissare in otto il numero degli dèi, dei quali cinque trarrebbero il loro nome dai Pianeti, un sesto risulterebbe dall'insieme delle stelle fisse che verrebbero cosi a costituire le sparse membra di un unico corpo indivisibile, il settimo e l'ottavo, infine, andrebbero identificati, rispettivamente, coi sole e con la luna: ma non si vede come dèi siffatti possano provare una qualsiasi sensazione di piacere.
Un altro discepolo di Platone, Eraclide Ponticos, a parte le sciocchezze puerili di cui ha infarcito i suoi libri, ondeggia fra una concezione tendente ad identificare la divinità col mondo ed un'idea tutta spirituale di Dio. Ma non esita, in seguito, a ritenere divini i pianeti, a spogliare la divinità di ogni facoltà percettiva e ad attribuirle un aspetto cangiante per poi annoverare di nuovo fra gli dèi, in quello stesso libro, il cielo e la terra.
35. Affatto intollerabile l'incoerenza di Teofrasto che assegna la suprema dignità divina ora allo spirito ora al cielo ora persino alle stelle e alle costellazioni. Né si può accettare la posizione dei suo alunno Stratone il fisico, che localizza nella natura la totalità della potenza divina quale depositaria delle supreme ragioni che presiedono alla nascita, alla crescita e al deperimento degli esseri, ma concepisce la divinità come incapace di percezioni e non rappresentabile con immagini sensibili
36. Venendo ora a parlare della scuola del nostro Balbo vediamo che Zenone eleva a dignità divina la legge naturale cui assegna il compito di prescrivere ciò che è giusto e di vietare ciò che al giusto si oppone. Come possa però fare di questa legge un'entità vivente non si riesce proprio a comprenderlo dal momento che per noi la divinità è fuori d'ogni dubbio un essere fornito di vita. Per di più in un altro passo questo medesimo autore denomina dio l'etere (ammesso e non concesso che si possa concepire un dio che non abbia alcun rapporto sensibile col mondo esterno e che non si faccia innanzi a noi al momento in cui gli rivolgiamo le nostre preghiere, gli esponiamo i nostri desideri, formuliamo i nostri voti).
In altre opere è del parere che un principio razionale, espressione della potenza divina, permei il mondo. Lo stesso concetto egli applica agli astri, ai mesi, agli anni ed alle stagioni. Nel commentare la Teogonia (ossia l'origine degli dèi) di Esiodo toglie di mezzo tutte le usuali e tradizionali idee sulla divinità. Non annovera fra gli dèi né Giove, né Giunone, né Vesta né alcun'altra divinità che abbia un nome qualsiasi, ma sostiene che questi nomi sono stati, attribuiti con valore allegorico agli esseri muti e inanimati.
37. Non meno erronea la teoria del suo discepolo Aristone il quale ritiene che la forma della divinità supera la nostra facoltà intellettiva, esclude che gli dèi possano avere sensazioni e non è ben certo se la vita sia un elemento veramente essenziale della natura divina. Cleante, discepolo di Zenone al pari di quello di cui abbiamo appena parlato, ora identifica la divinità coi mondo, ora assegna questo nome allo spirito di cui sarebbe permeata la natura, ora designa con assoluta certezza come dio quella fascia dall'intenso calore collocata agli estremi confini dell'universo che cinge e racchiude in sé la totalità del mondo cui viene dato il nome di etere.
E' poi lo stesso a delineare, quasi in preda ad una sorta di follia, nel suo trattato Contro ìl piacere, una ben definita immagine sensibile degli dèi o ad accentrare negli astri tutta l'essenza divina o a ritenere che nulla sia piú divino della ragione. Ne viene di conseguenza che quel dio di cui noi abbiamo contezza mercé la nostra intelligenza e del cui concetto desideriamo far tesoro imprimendolo nel nostro intimo non assume mai una reale consistenza.
38. Perseo un altro discepolo di Zenone, afferma che gli uomini finirono per venerare come dèi tutti coloro che avessero validamente contribuito con le loro scoperte al progresso della civiltà e col designare col nome degli dèi persino le utili e vantaggiose novità da essi introdotte fino al punto di sostenere che quelle tanto decantate scoperte non fossero opera degli dèi ma avessero esse stesse natura divina. Ma che vi può essere di più assurdo dell'elevare alla dignità divina delle realtà materiali prive di ogni valore e di ogni prestanza o dell'annoverare fra gli dèi degli uomini usciti da questa vita ai quali l'unico onore che si possa rendere rimane quello del compianto?
39. Crisippo, infine, comunemente considerato come il più acuto illustratore delle sognanti fantasie degli stoici, introduce una gran massa di divinità sconosciute, tanto sconosciute da impedirne una rappresentazione anche congetturale, benché il nostro pensiero abbia la facoltà di rappresentarsi qualsiasi oggetto.
Afferma che la potenza divina ha sede nella nostra ragione e nella forza vitale e raziocinante di cui e permeata la natura; considera alla stregua di una divinità lo stesso universo, lo spirito in esso diffuso ed il suo principio direttivo operante nell'ambito dell'intelletto e della ragione, nonché la natura che ogni cosa accomuna ed abbraccia in sé; lo stesso concetto egli applica alla potenza del fato, suprema ed ineluttabile dominatrice degli eventi futuri, nonché al fuoco ed all'etere cui s'è più sopra accennato. Divino è per lui anche tutto ciò che fluisce e si diffonde come l'acqua, la terra, l'aria, il sole, la luna, le stelle e la totalità stessa degli esseri che tutto racchiude in se, non esclusi anche quegli uomini che abbiano raggiunto l'immortalità.
40. Lo stesso Crisippo sostiene che quel dio che gli uomini chiamano Giove altro non è che l'etere celeste mentre Nettuno rappresenta l'aria diffusa sul mare e quella, che chiamano Cerere la terra; e alla stessa guisa interpreta i nomi degli altri dèi. Identifica inoltre con Giove la forza insita in quella eterna ed imperitura legge che guida la nostra vita e ne detta i doveri e a tale forza egli dà il nome di " necessità del fato " e di " eterna realtà del futuro ", ma nessuna di queste entità mostra di avere in sé le caratteristiche della potenza divina.
41. Tutto ciò Crisippo espone nel primo libro del suo trattato Sulla natura degli dei. Nel secondo vorrebbe accordare le favole di Museo, di Orfeo, di Esiodo e di Omero con quanto già esposto sugli dèi immortali sí da far apparire stoici ante litteram quegli antichissimi poeti che di questa concezione non ebbero il minimo sentore. Sulle sue orme Diogene di Babilonia nello scritto intitolato " Minerva " trasferisce dal mito alla scienza della natura il racconto del parto di Giove e della nascita della vergine dea.
42. Quelle che sono venuto esponendo sono più farneticazioni di uomini in preda al delirio che meditate conclusioni di pensatori. Non molto più assurdi sono, del resto, i racconti diffusi dalla voce dei poeti il cui deleterio effetto fu vieppiù accentuato dal fascino insito nello stesso linguaggio poetico. Sono essi che ci hanno rappresentato gli dèi infiammati dall'ira e sconvolti dalla passione, che ci hanno fatto assistere alle loro guerre, ai loro combattimenti, alle loro lotte, ai loro ferimenti, che ce ne hanno descritti persino gli odi, le inimicizie e le discordie, le nascite e le morti, i lamenti e le recriminazioni, le passioni aperte ad ogni eccesso, gli adulteri e gli imprigionamenti, l'unione con esseri mortali e la conseguente nascita di esseri mortali da un immortale.
43. Sullo stesso piano vanno poste le portentose dottrine dei magi e le insulsaggini degli Egiziani nonché le opinioni del volgo che, ignorando la verità, si dibatte in tutta una serie di incoerenti ed inconsistenti credenze.
Chi ben considerasse con quanta leggerezza e con quanta sconsideratezza si sostengono dottrine del genere, dovrebbe mettere Epicuro nel novero di quegli esseri dei quali ci stiamo ora occupando. Egli solo vide, per la prima volta, che gli dèi esistono, poiché è stata proprio la natura ad imprimere nella mente di ogni uomo la nozione degli dèi.
C'è forse un popolo, c'è una società di uomini che, pur senza una adeguata informazione, non abbia un qualche" presentimento " dell'esistenza degli dèi? A tale " presentimento " Epicuro applica il termine di prolempsin intendendo con questo nome una sorta di anticipata rappresentazione mentale dell'oggetto senza la quale non è possibile né comprendere, né approfondire né porre in discussione alcunché. L'utilità e la forza di questo argomento l'abbiamo appresa leggendo l'aureo volume di Epicuro sulla regola del giudizio.
44. Quello che è dunque il fondamento della nostra discussione lo avete ora ben chiaro dinanzi agli occhi. Poiché la fede negli dèi non è stata imposta né da una qualche autorità, né da una consuetudine né da una legge, ma e fondata sull'unanime consenso di tutti, se ne deve necessariamente dedurre che gli dèi esistono dal momento che ne possediamo il connaturato o, Per meglio dire, innato concetto. Dato quindi che ciò che il naturale consenso di tutti gli uomini ammette non può non essere vero, siamo costretti a convenire che gli dèi sono una realtà.
E poiché questa è una generale convinzione non dei soli filosofi, ma anche degli indotti, dobbiamo anche riconoscere di possedere una anticipata cognizione o, per usare il termine più sopra introdotto, un presentimento nuovi concetti esigono termini nuovi conformemente a quanto fece Epicuro che introdusse il termine prolepsin per designate un concetto che nessuno prima di lui aveva denominato così un presentimento, dicevamo, della felicità ed immortalità divine.
45. Questa stessa natura che ci istillò il concetto di divinità scolpì nelle nostre menti quello della eternità e felicità divina. Se la cosa sta realmente così, piena verità assume l'affermazione di Epicuro secondo la quale un essere felice ed eterno non può né turbarsi né creare turbamento ad altri e, conseguentemente, non provare né ira, né benevolenza, trattandosi di sentimenti che esprimono debolezza.
Se non avessimo altro scopo che quello di venerare piamente gli dèi e di liberarci dalla superstizione sarebbe sufficiente quanto già detto. Gli uomini potrebbero infatti continuare ad offrire il tributo del loro culto alla superiore natura eterna e felice degli dèi (ed è giusto venerare tutto ciò che ci trascende) senza temerne i colpi e l'ira, ché ira e benevolenza sono estranee ad esseri eternamente felici e, tolti questi sentimenti, nessuna minaccia ci può venire da parte degli dèi. Ma per convincersi di questa verità la mente umana desidera essere informata sull'aspetto degli dèi, sul loro sistema di vita e sull'attività del loro pensiero.
46. Sul loro aspetto esteriore in parte ci informa la natura, in parte ci illumina la ragione. Dalla natura noi tutti, a qualunque razza apparteniamo, non riceviamo alcun'altra immagine degli dèi se non quella antropomorfica. Sotto quale altro aspetto, infatti, essi si presentano ad alcuno, sia esso sveglio od immerso nel sonno? Ma, per non ridurre tutto a concetti primari anche la ragione proclama questa stessa verità.
47. Poiché l'essere che tutti gli altri sopravanza, vuoi perché felice, vuoi perché eterno, non può che essere anche supremamente bello, quale disposizione di membra, quale configurazione di linee, quale figura, quale aspetto può essere più bello di quel , lo dell'uomo? Persino voi stoici, Lucilio caro (quanto al mio Cotta, ora sostiene una tesi, ora un'altra), quando descrivete l'arte usata dalla divinità nella costruzione del mondo siete soliti mostrare come nella figura umana ogni particolare sia non solo funzionale, ma anche ispirato ai canoni della bellezza.
48. Orbene, se la figura umana supera la forma di ogni altro essere vivente e se la divinità è anch'essa un essere vivente, il suo aspetto sarà il più bello di tutti; e poi ché, d'altra parte, sappiamo che gli dèi sono infinitamente felici, che nessuno può essere felice senza la virtù e che questa non può esistere senza la ragione e che la ragione a sua volta non può aver sede che nell'essere umano, bisogna ammettere che gli dèi hanno aspetto umano.
49. Solo che la loro sostanza non ha un corpo ma una sembianza di corpo, non sangue ma una sembianza di sangue.
Benché la scoperta di questa verità abbia richiesto, da parte di Epicuro, una tale forza di penetrazione e la loro presentazione presenti tali sottigliezze da non risultare accessibile al primo venuto, io tuttavia, confidando nella vostra intelligenza, ne parlo piú brevemente di quanto l'argomento richiederebbe.
Epicuro dunque, che non si limita a vedere con gli occhi dell'anima realtà occulte e recondite, ma ne tratta come se fossero a portata di mano, sostiene che della sostanza divina noi avremmo una intuizione non sensibile ma mentale: non ne avremmo cioè una percezione materiale e individuale come di quegli oggetti che egli, per la loro solida consistenza, chiama steremnia, ma il nostro spirito, intimamente proteso a contemplare con immensa voluttà quelle serie ininterrotte di immagini affatto simili fra loro che si formano da innumerevoli atomi ed affluiscono presso gli dèi, giungerebbe ad affermare che cosa propriamente sia un essere felice ed eterno fondandosi proprio su quelle immagini che si susseguono identiche e ch'egli viene successivamente percependo.
50. La suprema realtà dell'infinito esige uno studio quanto mai approfondito ed attento e in esso e giocoforza scoprire una perfetta corrispondenza fra gli opposti. Questo principio Epicuro chiama isonomian cioè uniforme distribuzione. Da esso deriva la conseguenza che, se tanto estesa è la somma degli esseri mortali non minore sarà quella degli immortali e che se innumerevoli sono le cause distruttive, pure infinite saranno quelle conservatrici.
Voi stoici siete soliti anche chiederci - e mi riferisco a Balbo - in che consista la vita degli dèi e come trascorrono il loro tempo.
51. Ebbene, essa sarà tale che nulla si possa immaginare di più felice e di più ricco di ogni bene. Un dio è del tutto inattivo, non è impegnato in alcuna occupazione, non attende ad alcun lavoro, gode della sua saggezza e della sua virtù, ha la fondata certezza di fruire per sempre di grandissimi ed inestinguibili piaceri.
52. Questo dio potremmo chiamare felice nel vero senso dei termine, non già il vostro che è ciò che di più sofferente si possa immaginare. Se si accetta infatti la tesi dell'identificazione della divinità coi mondo, nulla v'è di meno tranquillo di quel continuo ruotare a straordinaria velocità attorno all'asse del cielo senza il benché minimo arresto: nessun essere è felice se non è tranquillo. Se invece v'è una divinità immanente che regge e governa le cose, che regola secondo leggi costanti il corso degli astri, l'avvicendarsi delle stagioni e l'ordinato procedere degli eventi che, tenendo sotto il suo vigile sguardo i mari e le terre, provvede a soddisfare le esigenze vitali dell'umanità, ben faticose e seccanti saranno le faccende nelle quali si troverà invischiata.
53. Noi, per quanto ci concerne, poniamo la felicità nella serenità dello spirito e nella libertà da ogni impegno. Colui che ci ammaestrò in tutto il resto ci ha anche insegnato che il mondo si è costituito per opera della natura senza che fosse necessaria una esecuzione ispirata ad un preciso progetto e con la stessa sicurezza con la quale voi negate che ciò possa essere avvenuto senza la solerte cura della divinità, egli afferma che assai agevolmente la natura ha creato, continua a creare e creerà in futuro innumerevoli mondi. Voi invece non riuscite a rendervi ragione di come la natura possa operare ciò senza la guida di una mente direttiva e, allo stesso modo dei poeti tragici, non riuscendo a dare una soluzione plausibile dello scioglimento del vostro dramma, ricorrete alla divinità
54. Ma certo voi non sentireste la mancanza del suo intervento se riusciste ad intuire la immensa ed infinita estensione dello spazio in ogni direzione, immergendosi e profondendosi nella quale il nostro spirito può continuare a percorrerla in ogni senso senza mai trovare un punto al quale arrestarsi. In questa immensità, dunque, che si protende all'infinito in tutte le possibili dimensioni, si aggira una quantità illimitata di innumerevoli atomi che, sebbene separati dal vuoto, si uniscono fra loro e, collegandosi l'uno all'altro, costituiscono delle masse continue; nascono così quelle forme, quelle figure degli oggetti che, a vostro parere, non potrebbero essersi costituite senza l'ausilio di mantici e di incudini, sí da indurvi a far incombere sul nostro capo un eterno padrone, perenne oggetto di timore sia di giorno che di notte. Come non temere un dio sempre affaccendato ed occupato che a tutto provvede, che a tutto pensa, che di tutto si accorge e che ritiene ogni cosa di sua pertinenza?
55. Di qui trasse la sua prima origine quel concetto di necessità fatale che voi chiamate heimarmenen, secondo il quale affermate che ogni evento trae origine da una realtà eterna e da una serie ininterrotta di cause. Ma quale valore assegnare ad una filosofia come questa che sostiene che ogni cosa avviene per volere del fato? Sono idee da vecchierelle, ed ignoranti, per giunta! E non parliamo poi della vostra mantike, o divinazione, per usare un vocabolo latino! Se vi dessimo ascolto su questo punto ci troveremmo Pervasi da una tale superstizione da sentirci in dovere di venerare gli aruspici, gli indovini i venditori di oracoli, gli interpreti di sogni.
56. Ma Epicuro ci ha liberati ed affrancati da questi terrori e non siamo più portati a temere degli esseri che, ben lo sappiamo, né vanno in cerca di affanni per se stessi né ne procurano agli altri e continuiamo a venerare la loro natura eccelsa e trascendente.
Ma temo che l'entusiasmo mi abbia fatto parlare troppo a lungo; del resto era difficile lasciare a mezzo una trattazione così vasta ed importante, benché, a dire il vero, mio compito non fosse tanto quello di parlate quanto quello di ascoltare".
57. A questo punto Cotta, con la sua solita amabilità " eppure " - intervenne - " o Velleío, se non avessi parlato tu, nulla avresti potuto udire da me. Di solito non mi saltano tanto facilmente agli occhi le ragioni della validità di un'affermazione quanto quelle della sua falsità. E' un fenomeno che mi capita spesso e l'ho provato anche mentre ti stavo ascoltando. Se mi chiedessi la mia opinione sulla sostanza degli dèi, forse non ti risponderei; ma se volessi conoscere il mio parere sulla tua, ti direi che nulla mi sembra meno accettabile.
Prima però di passare all'esame delle tue affermazioni voglio esprimerti il mio schietto pensiero sulla tua persona.
58. Spesso avevo sentito sostenere da quel tuo amico Lucio Crasso - così mi sembra di ricordare - che non solo tu sopravanzavi tutti gli altri seguaci in toga del verbo epicureo, ma che pochi fra i Greci erano degni di starti a paro. Ben comprendevo però che grande era la stima nei tuoi riguardi ed ero convinto che esagerasse per eccesso di benevolenza.
Ora però - benché mi faccia riguardo di lodare una persona presente - ti do atto che hai trattato con estrema chiarezza una tesi difficile ed oscura e non solo con ampiezza ed abbondanza di argomentazioni ma anche con un linguaggio piú forbito di quello in uso nella vostra scuola.
59. Durante il mio soggiorno ateniese mi recavo piuttosto spesso alle lezioni di Zenone, quello che il nostro Filone chiamava "corifeo" degli epicurei. Ed era lo stesso Filone a consigliarmi di ascoltarlo, forse - così io penso - perché comprendessi meglio con quanta facilità si potessero confutare quelle dottrine nell'esposizione dei caposcuola.
Orbene, il suo modo di esporre non era quello dei più, ma era come il tuo: preciso, pacato ed elegante. Ma mi accadeva allora quello che mi è accaduto nell'ascoltare te: non riuscivo a concepire che un così fervido ingegno (spero che mi perdonerai questa libertà) si perdesse in tali ingenuità, per non dire sciocchezze.
60. Non che io abbia in questo momento da proporre qualcosa di meglio. Come ho già detto in ogni questione, e soprattutto nel campo della filosofia naturale, mi riesce più facile demolire che costruire un sistema.
. Qualora tu, comunque, volessi sapere da me in che cosa propriamente consista e quale sia la natura della divinità, potrei rifarmi all'autorità di Simonide. Di lui si narra che, avendogli il tiranno lerone rivolta questa stessa domanda, chiedesse un giorno per riflettere. Ma il giorno successivo, di fronte alla stessa richiesta, ne chiese due; ed in seguito, perché continuava a chiedere proroghe sempre piú ampie, meravigliato lerone volle conoscere la ragione di un simile comportamento. Al che Simonide: " quanto piú a lungo ci rifletto sopra " - rispose - " tanto piú la questione mí si fa oscura ". Probabilmente Simonide - che, come tutti sanno, non fu solo un delicato poeta, ma anche un uomo di profonda e varia cultura - finì col dubitare di ogni verità proprio perché svariate ed acute soluzioni si succedevano nel suo spirito senza che riuscisse a stabilire quale fosse la più vera.
61. Ma il tuo Epicuro (con lui preferisco discutere piuttosto che con te) quale affermazione ha fatto che avesse non dico dignità filosofica ma almeno un minimo di comune buonsenso?
Nella nostra questione relativa agli dèi il primo interrogativo che si presenta è quello relativo alla loro esistenza.
" E' difficile negarla " mi dirai, ed io te ne do atto, a patto però che questa domanda sia rivolta in una pubblica assemblea. In una conversazione privata come questa e fra persone come noi non c'è invece nulla di piú facile. lo stesso che rivesto la carica di pontefice e ritengo che le cerimonie e le pratiche religiose in uso Presso il popolo vadano osservate col massimo scrupolo, vorrei tanto potermi convincere di questa prima verità, che cioè gli dèi esistono, non soltanto con la fede ma anche con prove razionali. Purtroppo accadono molti fenomeni sconcertanti che sembrano escluderne l'esistenza.
62. Con te voglio però essere longanime: lascerò da parte tutte le convinzioni che voi avete in comune con le altre scuole, come quella testé esaminata. Siamo tutti d'accordo, ed io per primo, che gli dèi esistono e perciò non faccio obiezioni. Quella che non mi convince è la spiegazione da te addotta al riguardo. Tu hai detto che il consenso di tutti i popoli e di tutte le nazioni è un valido argomento per indurci ad ammettere l'esistenza degli dèi.
Orbene, questa affermazione è ad un tempo superficiale e falsa. In primo luogo che sai tu di ciò che pensano gli altri popoli? Per quanto mi concerne ritengo che esistano popoli talmente immersi nella barbarie da non sospettare minimamente l'esistenza degli dèi.
63. E che dire poi di Diagora, detto l'ateo, e, in epoca più recente, di Teodoro? Non hanno forse apertamente negata l'esistenza della divinità? Consideriamo il caso di Protagora di Abdera di cui anche tu hai testé fatta menzione e che fu senza dubbio il più grande fra i sofisti del suo tempo: a causa di una frase collocata all'inizio di un suo libro, (degli dèi non saprei dire né se esistono né se non esistono) per ordine degli Ateniesi fu esiliato dalla città e dal suo territorio e le sue opere furono bruciate in pubblico.
Orbene, io ritengo che molti si trattennero dal fare pubblica professione di ateismo proprio perché anche il solo dubbio su questo argomento non sarebbe potuto sfuggire ad una sanzione. Che dire poi dei sacrileghi, degli empi e degli spergiuri?
Se mai un Lucio Tubulo, ....re un Lupo o un Carbone o un figlio di Netiuno, per citare le parole di Lucilio, avesse creduto negli dèi, si sarebbe forse macchiato di tanti spergiuri e di tante turpitudini?
64. Il procedimento da voi seguito per dimostrare la vostra tesi non ha dunque quella forza probante che apparentemente sembra offrire. Ma poiché questo argomento è comune anche ad altri filosofi, per ora lo lascerò da parte. Preferisco invece passare all'esame delle tesi peculiari della vostra scuola.
65. Ammetto che esistono gli dèi, ma tu spiegami allora quale ne sia l'origine, dove dimorino, quale sia il loro rivestimento corporeo, quale la loro anima, quale il loro sistema di vita; è questo ciò che desidero sapere. Per ogni questione tu ricorri al libero mondo degli atomi ed immagini che da essi derivi tutto ciò che, come si suoi dire, capita sulla terra. Ma, innanzitutto gli atomi non esistono. Non v'è nulla infatti, * * che manchi di rivestimento corporeo; ogni spazio è stipato di materia e non vi può essere pertanto nulla di vuoto né di indivisibile.
6. Queste che ti vengo esponendo sono le divinazioni dei nostri filosofi naturali; se esse siano vere o false non saprei dire, ma certo sono più probabili delle vostre. Quanto poi alle disastrose teorie di Democrito, o anche del suo predecessore Leucippo, secondo le quali esisterebbero delle sottili particelle di cui alcune ruvide, altre rotonde, altre ancora fornite di spigoli o con superficie ricurva e recanti una sorta di uncini e da esse deriverebbero il cielo e la terra non in forza di un impulso naturale ma in seguito al loro fortuito incontro, tu, Gaio Velleio, hai recato in te fino ad ora questa dottrina e sarebbe più facile distoglierti dalla vita che dalla fedeltà a codesto tuo maestro. Gli è che tu hai deciso di essere epicureo prima ancora di conoscere queste dottrine e ti sei quindi trovato nella necessità o di accettare ed aderire a questi spropositi o di rinunciare al nome della scuola da te adottata.
67. Che ci perderesti a smettere di essere epicureo? "Nulla m'indurrà a rinunciare " mi risponderai " alla norma che permette una vita felice e al possesso della verità ". Sarebbe questa dunque la verità? Non faccio obiezioni circa la felicità che tu non riconosci neppure in un dio se non a condizione che languisca nell'ozio. Ma dov'è questa verità?
Penso negli innumerevoli mondi che ad ogni istante nascono o muoiono. O, forse, nelle particelle indivisibili che senza alcuna guida da parte della natura e senza il minimo principio razionale costruiscono opere così eccelse? Ma mi avvedo di aver messo alquanto da parte la longanimità che avevo cominciato ad usare nei tuoi riguardi e che sto esorbitando dall'argomento. Ammetterò dunque che ogni cosa è composta di atomi. Ma questo che ha a che fare con il nostro argomento?
68. Il problema verte sulla natura degli dei. Ammettiamo per un momento che essi siano composti di atomi: ne risulterà che essi non sono eterni. Ogni composto atomico, infatti, nasce nel tempo; e se essi sono nati, non esistevano dèi prima della loro nascita; e se gli dèi hanno avuto un principio dovranno necessariamente avere anche una fine, come tu poco fa dicevi a proposito del mondo immaginato da Platone. Dove è andata a finire la felicità e l'eternità, i due termini coi quali voi designate l'essere divino? Nel tentativo di raggiungere questo risultato cadete in un roveto: che questo tu andavi dicendo: che in un dio non v'è corpo ma una sembianza di corpo, non sangue ma una sembianza di sangue.
69. E' un procedimento cui voi ricorrete piuttosto sovente. Ogni qualvolta cadete in affermazioni prive di verosimiglianza e desiderate evitare le critiche, adducete a riprova dei vostro assunto fatti dei quali è da escludere anche la semplice possibilità che siano veri, sí che sarebbe stato preferibile cedere sull'oggetto del dissenso piuttosto che sostenere il proprio punto con tanta petulante sicurezza. Tale è l'atteggiamento di Epicuro. Ben conscio che la caduta degli atomi verso il basso sotto l'impulso del loro peso toglie all'uomo ogni possibilità di utodeterminazione data l'ineluttabile necessità dei loro movimento, ricorre ad uno stratagemma che anche Democrito si era guardato bene dall'adottare: afferma, cioè, che gli atomi, pur muovendosi verticalmente verso il basso in linea retta, subiscono leggere deviazioni.
70. Ma sostenere questo è assai peggio che mostrarsi incapace di difendere le proprie posizioni. Identico il tono delle sue polemiche contro i dialettici. E' noto che in ogni proposizione disgiuntiva del tipo " o è... o non è... " uno dei due termini deve essere vero. Orbene, il nostro filosofo temendo che in una frase così concepita " domani Epicuro sarà in vita o non sarà in vita " una delle due affermazioni dovesse necessariamente essere valida, negò all'intera espressione il carattere della necessità, cadendo cosi in un'affermazione di cui nulla vi può essere di più insensato. Ma non basta.
Arcesilao soleva rimproverare a Zenone di considerate falsi. solo alcuni e no n tutti ì dati della sensazione contro la sua negazione totale. Ebbene, Epicuro, nel timore che la falsità di un solo dato compromettesse la validità di tutti gli altri, considerò i sensi in blocco come i fedeli messaggeri dei vero. - Ed in questo si mostra tutt'altro che abile - : per schivare un colpo leggero si espone ad uno assai più forte.
71. Lo stesso errore lo commette nel definire la natura divina. Temendo che la nozione di aggregato atomico implichi quella di disgregazione e di distruzione giunge ad affermare che gli dèi non posseggono un corpo, ma una sembianza di corpo, non sangue, ma una sembianza di sangue.
C'è da stupirsi che un aruspice non rida incontrandone un altro, ma ancor più desta meraviglia che voi possiate trattenere il riso quando siete fra voi. " Non un corpo ma una sembianza di corpo " : capirei il senso di una espressione siffatta se si trattasse di immagini di cera o di terracotta. Ma che cosa significhi in un dio " una sembianza di corpo " ed " una sembianza di sangue " non riesco proprio a capirlo. E neppure tu lo capisci, mio caro Velleio, anche se non vuoi confessarlo.
72. Gli è che voi continuate a ripetere, parola per parola, tutto ciò che Epicuro ha creduto di intravedere nelle sue allucinanti visioni di sogno, visto che, come risulta dai suoi scritti, egli si vanta di non aver avuto maestri. E questo io lo crederei anche se non fosse lui a dirlo così come crederei al proprietario di una casa mal costruita il quale sostenesse di non essere ricorso ad alcun architetto; in lui non v'è la minima traccia né dell'Accademia, né del Liceo e neppure degli studi più elementari.
Potrebbe aver udito le lezioni di Senocrate (e di quale maestro, per gli dèi immortali!) e v'è chi sostiene che le abbia veramente ascoltate benché quegli lo neghi, ed io credo a lui, più che a qualsiasi altro. Ammette di aver frequentato a Samo le lezioni di un certo Panfilo discepolo di Platone (a Samo, infatti, egli abitò da ragazzo insieme al padre ed ai fratelli in quanto suo padre Neocle si era trasferito nell'isola a coltivare un suo fondo, ma non bastando, suppongo, i proventi del campicello al suo sostentamento faceva il maestro di scuola);
73. Il suo atteggiamento però verso questo seguace delle dottrine platoniche è quello di uno stupefacente disprezzo, tanto era in lui il timore che lo si considerasse debitore ad altri di qualche insegnamento. Nel caso del Democriteo Nausifane la dipendenza è sicura, ed egli lo ammette, ma lo ricopre di ogni genere di critiche. Eppure, se non avesse appreso da lui queste dottrine di Democrito, da chi avrebbe potuto udirne parlare? Che cosa v'è nella fisica di Epicuro che non dipenda da Democrito? A parte qualche modifica, come quella relativa alla deviazione degli atomi di cui s'è detto sopra, dice press'a poco le stesse cose : ci parla degli atomi, del vuoto, dei simulacri, dell'illimitata estensione spaziale, del numero infinito dei mondi, del loro sorgere e del loro perire, più o meno, cioè, di tutto ciò di cui si occupa la scienza della natura.
74. Orbene, che cosa intendi tu per " sembianza di corpo " e " sembianza di sangue " ? Ammetto, anzi riconosco volentieri che di codeste teorie tu ne sappia più di me; ma una volta che siano state esposte non vedo come possa esservi qualcosa che Velleio sia in grado di comprendere e Cotta no. Così io comprendo che cosa sia il corpo e che cosa sia il sangue, ma in che consistano " una sembianza di corpo " e " una sembianza di sangue " non riesco in nessun modo a capirlo. E tu non fai come Pitagora, che nascondeva il suo pensiero a chi non apparteneva alla setta, o come Eraclito, che si esprimeva di proposito in modo oscuro, ma... - detto fra noi - non lo comprendi neppure te.
75. Vedo che i tuoi sforzi tendono a presentarci una sostanza divina che sia priva di ogni solidità e concretezza materiale, di ogni definito ed evidente aspetto esteriore, che sia pura, leggera, trasparente. Per essa potremo dunque usare le stesse espressioni che per la Venere di Coo: "quello non è un corpo, ma assomiglia ad un corpo, e quel rossore diffuso misto al candore non è sangue ma qualcosa che assomiglia al sangue". Allo stesso modo nel dio di Epicuro non v'è realtà ma una sembianza di realtà. Ma ammettiamo pure che io riesca a convincermi di ciò che va al di là di ogni possibile comprensione; tu però parlami della forma e dell'aspetto esteriore di queste nebulose divinità.
76. A questo proposito non vi mancano certo le argomentazioni per dimostrare che gli dèi hanno aspetto umano.
In primo luogo vi sarebbe una naturale predisposizione della nostra mente a raffigurarsi una figura umana non appena si affaccia in lei il pensiero della divinità. In secondo luogo l'assoluta superiorità della natura umana rispetto ad ogni altro essere implicherebbe anche la prerogativa di, una suprema bellezza e nessun'altra creatura è più bella dell'uomo. Come terzo argomento adducete la considerazione che la facoltà del pensiero non può trovare ricetto in alcun'altra forma sensibile.
77. Ma prima di tutto considera bene quale sia l'esatto peso di ciascun argomento. A mio parete, infatti, voi vi sforzate di strappare arbitrariamente una conclusione che non può in alcun modo essere dimostrata. Innanzitutto chi, considerando la realtà delle cose, fu mai tanto cieco da non accorgersi che codesto trasferimento dell'aspetto umano alla divinità fu dovuto o a una ponderata deliberazione dei sapienti, col preciso scopo di avviare le mentì degli indotti al culto degli dèi strappandoli alla loro abiezione morale, o ad una pratica superstiziosa che introdusse l'uso di immagini venerando le quali gli uomini credettero di essere alla diretta presenza degli dèi? Molto contribuirono poi alla diffusione di quelle idee i poeti, i pittori e gli artisti, data la difficoltà di rappresentate sotto una forma diversa dall'umana gli dèi nell'atto di compiere o di intraprendere un'azione qualsiasi. Un altro contributo al l'affermazione di questo concetto fu forse anche arrecato dalla naturale fiducia dell'uomo nella sua superiore bellezza.
Ma tu che sei studioso di problemi naturali non vedi quale insinuante mediatrice e quasi mezzana di se stessa sia la natura? Pensi tu forse che possa esservi in cielo o in terra anche un solo animale che non provi il più grande dei piaceri nell'unirsi ad un suo simile? Se non fosse così che cosa impedirebbe ad un toro di desiderare una cavalla o ad un cavallo di desiderare una giovenca? Pensi forse che un'aquila o un leone o un delfino antepongano al proprio aspetto quello di un altro animale? Che c'è dunque di strano, se la natura ha indotto l'uomo a non riconoscere in alcun altro essere una bellezza superiore alla sua, e se per questo noi riteniamo gli dèí simili agli uomini?
78. Che cosa pensi che accadrebbe se gli animali avessero la capacità di ragionare?
Non porrebbe forse ciascuno al primo posto la propria specie? Per quanto mi concerne, però (bisogna che esprima la mia schietta opinione) pur avendo stima di me stesso non oserei porre la mia bellezza al di sopra di quella del famoso toro che rapì Europa: non sono ora in questione le nostre doti intellettuali ed oratorie ma solo il nostro aspetto esteriore. Ché se poi noi volessimo rappresentarci immaginarie combinazioni di forme diverse, non vorresti tu forse rassomigliate al famoso Tritone marino che è dipinto nell'atto di avanzare trasportato da mostri natanti uniti ad un corpo umano? Comprendo che l'argomento è difficile: tanto grande è l'istinto naturale che nessun uomo vorrebbe essere simile se non ad un uomo (ed una formica ad una formica).
79. Ma a quale uomo però? Quanti nella massa sono veramente belli? Durante il mio soggiorno ateniese, fra gli efebi se ne trovava a malapena uno per ogni plotone che lo fosse veramente: capisco perché ridi, ma la cosa sta veramente così. Inoltre noi che, con l'approvazione degli antichi filosofi, ci compiacciamo di stabilire rapporti di intimità con dei giovinetti, troviamo spesso gradevoli anche dei veri difetti. Ad Alceo "piace un neo sul polso dei suo favorito ". Si obietterà che un neo è una macchia della pelle: ma ciò non toglie che a lui sembrasse uno splendore.
Quinto Catulo, padre del nostro attuale collega ed amico, amava il tuo concittadino Roscio e scrisse anche dei versi in suo onore: "Mi ero fermato per caso a salutare il sorgere dell'aurora quando improvvisamente alla mia sinistra comparve Roscio Perdonatemi, o Celesti, se oso affermare che un mortale mi parve più bello di un dio".
Per lui dunque Roscio era più bello di un dio. Eppure era, ed ancora lo è, terribilmente strabico. Ma che importanza ha se questo difetto a lui sembrava gustoso e pieno di grazia?
80. Torno agli dèi. Dovremo dunque ritenere che alcuni di essi, se non proprio strabici, abbiano però uno sguardo leggermente obliquo? Che vi siano dèi deturpati da un neo, camusi, con lunghe orecchie penzoloni, con la fronte esageratamente larga, col capo enorme, coi difetti cioè che riscontriamo in noi? Oppure tutto in loro è perfetto? Anche ammessa quest'ultima vostra asserzione, dovremo pensare che gli dèi abbiano tutti il medesimo aspetto? Se presentano aspetti diversi l'uno sarà piú bello dell'altro ed esisterà qualche dio non dotato di eccelsa bellezza. Se invece l'aspetto è identico per tutti c'è davvero da pensare che in cielo trionfi la scuola accademica dato che, non essendovi differenza fra l'una e l'altra divinità, ogni conoscenza e percezione risulta fra esse affatto impossibile.
81. E che farai, Velleio, se risulterà falsa anche l'altra tua affermazione, che cioè la figura umana si presenta a noi quando pensiamo agli dèi? Continuerai a sostenere codeste tue assurde teorie? Forse a noi capita proprio come dici tu: fin da ragazzi abbiamo imparato a conoscere Giove, Giunone, Minerva, Nettuno, Vulcano, Apollo e gli altri dèi con quell'aspetto col quale vollero raffigurarli i pittori e gli scultori, e non solo col peculiare aspetto di ciascuno ma anche con i particolari ornamenti, con la medesima età, con le identiche vesti. Ma ciò non vale né per gli Egiziani, né per i Siri né per tutti o quasi gli altri popoli barbarici. Presso di loro potresti trovare una fede in determinati animali assai più salda della nostra venerazione per i templi e per le statue piú sacre.
82. Abbiamo visto molti templi spogliati e molte statue di dèi strappate ai santuari più venerandi per mano di nostri correligionari ma non s'è mai udito dire che un egiziano abbia offeso, sia pure a parole, un coccodrillo, un'ibis o un gatto. Orbene, che cosa inferisci da ciò? Api, il famoso bue sacro degli Egiziani, non è forse per essi un dio? Certo lo è non meno che, per voi, la vostra famosa Sospita che tu non vedi mai, neppure in sogno, se non coi caratteristico piede caprino, armata di asta e di scudetto, calzata con le tipiche scarpette a becco: eppure non è questo l'aspetto né di Giunone Argíva né della Giunone Romana. Altro è dunque l'aspetto di Giunone per i Lanuvini, altro per gli Argivi, altro per noi. E il nostro Giove Capitolino non è lo stesso che, per gli Africani, il loro Giove Ammone.
83. Non è forse una vergogna che uno studioso della natura che, a guisa di cacciatore, ne va esplorando ed inseguendo i segreti, voglia ricavare una sicura testimonianza della verità proprio dall'animo umano, tutto imbevuto di inveterati pregiudizi? Procedendo di questo passo ci sentiremo in diritto di asserire che Giove porta sempre la barba, che Apollo ne è sempre privo, che gli occhi di Minerva sono verdi mentre azzurri sono quelli di Nettuno. Ma non basta: ad Atene ammiriamo una statua di Vulcano scolpita da Alcamene, una figura eretta e drappeggiata che tradisce un'andatura leggermente claudicante non priva di grazia. Di qui l'uso di considerare zoppa questa divinità perché la tradizione ce l'ha rappresentata così. E dimmi ancora, gli dèi hanno quegli stessi nomi coi quali noi siamo soliti nominarli?
84. No di certo ché, in primo luogo, tanti sono i nomi degli dèi quante sono le lingue parlate dagli uomini. Tu, dovunque ti rechi, sei sempre Velleio, ma Vulcano ha nomi diversi a seconda che ci si trovi in Italia, in Africa o in Spagna. Inoltre il numero complessivo dei nomi divini non è grande neppure nei nostri libri pontificali ma infinito è quello degli dèi. Dovremo dunque pensare che non abbiano nome? A questa conclusione dovete necessariamente arrivare, visto che non ha alcun senso una pluralità di nomi data l'identità dell'ápetto. Come sarebbe stato meglio, Velleio caro, confessare la tua ignoranza piuttosto che disgustarci con codeste tue ciarle facendo, nel contempo, torto a te stesso! Credi davvero che la divinità sia simile a me o a te? Certamente non lo credi neppure tu.
"Ma allora" obietterai tu " dovrò considerare divino il sole o la luna o il cielo? In tal caso, bisognerà ritenere che vivano felici; ma quali mai saranno i piaceri di cui godranno? e occorrerà anche pensare che siano sapienti; ma come può albergare la sapienza in esseri inanimati? " Queste sono le vostre argomentazioni.
85. Quindi - aggiungerò io - visto che gli dèi non hanno né aspetto umano, come ti ho dimostrato, né alcun altro aspetto del tipo di quelli esposti, come è tua convinzione, perché esiti a negarne l'esistenza? E' chiaro che non ne hai il coraggio. Ed in questo dimostri buon senso, benché, a dire il vero, quella che tu temi a questo riguardo non è la reazione popolare, bensì la stessa divinità. Ho conosciuto degli epicurei che veneravano anche le più piccole statue, nonostante la diffusa opinione che Epicuro a parole abbia conservato la credenza negli dèi per non essere messo sotto accusa dagli Ateniesi, ma di fatto li abbia definitivamente tolti di mezzo! Appunto per questo, io penso, nella raccolta di brevi aforismi che voi chiamate kurias doxas, il primo è occupato da questa affermazione: "ciò che è felice e immortale non soffre né arreca ad altri alcuna molestia";
Secondo alcuni siffatta formulazione - dovuta in realtà ad imperizia linguistica - sarebbe intenzionale: ma è un ingiusto sospetto rivolto ad un uomo affatto privo di malizia.
86. Non è ben chiaro infatti se egli affermi che esiste un essere felice ed immortale o si limiti a dire che, posto che tale essere esista, sia quale egli lo immagini. Sfugge a costoro che, se in questo passo Epicuro si è espresso in modo ambiguo, in altri passi sia lo stesso Epicuro, sia Metrodoro espongono l'argomento con la stessa chiarezza con la quale ti sei espresso tu poco fa. Egli, cioè, crede veramente negli dèi e io non ho mai visto nessuno che, più " di lui, temesse quelle cose che egli sosteneva non doversi temere, voglio dire gli dèi e la morte. Per gli uomini comuni terrori del genere non hanno troppo peso; a sentir lui, invece, ne sarebbero sconvolte le menti di tutti i mortali! Ben terribile deve apparire la morte ai tanti criminali che si danno ai latrocini con la prospettiva della pena capitale, ben terribile deve presentarsi la maestà divina a quelli che van depredando tutti i santuari che capitano loro a portata di mano!
87. Ma poiché non hai il coraggio di negare gli dèi (e qui mi rivolgo direttamente ad Epicuro) che ti impedisce di annoverare fra gli dèi il sole o il mondo o una forma di intelligenza dotata di vita immortale? Mi obietterai che non s'è mai vista un'anima dotata di volontà e di ragione albergare in un corpo diverso da quello umano. E con ciò? Hai mai visto qualcosa di simile al sole, alla luna od ai cinque pianeti? Il sole contenendo il suo movimento nello spazio limitato dai due punti estremi di un'orbita compie il suo corso annuale; la luna, illuminata dai raggi solari, compie lo stesso percorso nel giro di un mese; i cinque pianeti seguendo la stessa orbita gli uni più lontano, gli altri più vicino alla terra, pur muovendo dagli stessi punti di partenza, percorrono le stesse distanze in tempi diversi. Forse che tu, Epicuro, hai visto altri corpi simili a questi?
88. Tanto varrebbe allora negare anche l'esistenza dei sole, della luna e delle stelle se esiste solo ciò che si può vedere e toccare! E Dio l'hai mai visto tu? Perché allora credi che esista? Sì tolgano dì mezzo tutte le nuove conoscenze che la storia e la scienza ci hanno fornito: avremo così il bel risultato che gli abitanti dell'entroterra negheranno l'esistenza del mare! Ma dobbiamo davvero limitare a tal punto le prospettive del nostro pensiero? Secondo le vostre premesse se tu fossi nato a Serifo e non ti fossi mai allontanato dall'isola ed ivi ti fosse spesso capitato di vedere leprotti e volpacchiotti, dovresti essere in diritto di non credere nell'esistenza dei leoni e delle pantere, quand'anche te ne fosse descritto l'aspetto, e dovresti ritenere che ci si prenda gioco di te sentendo parlare dell'elefante!
89. Quanto a te, Velleio, hai concluso la tua dimostrazione non secondo l'uso epicureo bensì secondo i moduli della dialettica che quelli della tua scuola non conoscono affatto. Hai incominciato col dire che gli dèi sono felici, e su questo siamo d'accordo. Hai poi detto che nessuno può essere felice senza virtù, ed anche questo te lo concediamo e di buon grado, per giunta.
Hai anche detto che la virtù è indissolubile dalla razionalità, e si deve ammettere che anche questa affermazione lega bene con tutto il resto. Aggiungi però che la ragione non può albergare che in un essere dall'aspetto umano. Ora, chi pensi sia disposto a lasciarti passare per buona un'affermazione del genere? Se fosse così, che ragione c'era perché tu procedessi per gradi fino a questa conclusione? Avresti avuto tutto il diritto di darla senz'altro per dimostrata. Ma esaminiamo meglio questo tuo procedimento " per gradi ". I due passaggi dal concetto di felicità a quello di virtù e dal concetto di virtù a quello di razionalità sono senz'altro graduali. Ma come fai poi a passare dal concetto di razionalità a quello di figura umana? Qui c'è un salto logico, non una deduzione.
90. Neppure comprendo perché Epicuro abbia preferito dichiarare gli dèi simili agli uomini piuttosto che gli uomini simili agli dèi. Mi Chiederai forse che differenza ci sia data la reciprocità delle due proposizioni, ed io mi dichiaro senz'altro d'accordo con te. Questo però voglio dire che agli dèi il loro aspetto non derivò certo dagli uomini.
Gli dèi infatti sono sempre esistiti e non hanno mai avuto nascimento, dato che sono destinati a vivere eternamente. Gli uomini invece sono cominciati ad esistere al momento della loro nascita. La figura umana dunque, che fu sempre propria degli dèi, è preesistita agli uomini stessi. Non e dunque lecito denominare umano il loro aspetto, ma, piuttosto, divino il nostro.
Ma su questo punto lascio decidere a voi: questo piuttosto mi chiedo, per quale evento fortunato (e parlo di fortuna perché, secondo voi, nulla avviene in natura secondo un principio razionale)
91. per quale prodigiosa circostanza poté verificarsi una così favorevole combinazione di atomi che gli uomini assumessero, nascendo, sembianze divine. Dobbiamo pensare che dal cielo caddero sulla terra dei germi divini e che di conseguenza gli uomini risultarono simili ai loro padri naturali? Vorrei tanto che affermaste questo: non mi dispiacerebbe riconoscermi imparentato con la divinità. Ma voi non dite nulla di simile e vi limitate ad affermare che per un caso fortuito noi risultammo simili agli dèi. Dovrei a questo punto cercare degli argomenti per confutare codesta affermazione? Oh, riuscissi a scoprire la verità con la stessa facilità con la quale riesco a confutare il falso!
Tu hai passato in rassegna, è vero, con esattezza ed ampiezza di particolari le varie opinioni dei filosofi sulla natura degli dèi a partire da Talete di Mileto, ed io sono rimasto sicuramente ammirato di scoprire in un Romano tanta cultura.
92. Ma dimmi un po', pensi davvero che fossero pazzi tutti coloro che sostennero che può esistere un dio privo di mani e di piedi?
Considerando quale sia per l'uomo l'effettiva utilità e convenienza delle membra non vi sentite spinti a concludere che gli dèi non ne hanno punto bisogno? A che servono i piedi se non occorre camminare? Che bisogno c'è delle mani se non c'è nulla da afferrare? E a che pro continuare con l'enumerazione di tutte le parti del corpo dove nulla v'è che sia inutile, nulla che non abbia una ben definita ragion d'essere, nulla che risulti superfluo, sí che nessun artificio umano riesce ad imitare la solerte previdenza della natura?
Ma tant'è. La divinità avrà dunque una lingua ma non parlerà; avrà dei denti, un palato e una gola senza poter farne alcun uso; e del tutto inutile sarà per lei possedere quegli organi di cui la natura ha dotato il nostro corpo perché possa provvedere alla procreazione di altri esseri umani; e quello che si è detto per le parti esterne vale anche per gli organi interni come il cuore, i polmoni, il fegato e tutto il resto: ché, a parte la loro utilità, quale funzione estetica possono mai avere? (E in tanto voi continuate a sostenere che questi organi fanno parte della divinità in funzione della bellezza!)
93. Del resto, non è forse partendo da queste fantasticherie che non solo Epicuro, Metrodoro ed Ermarco hanno polemizzato con Pitagora, Platone ed Empedocle, ma persino una cortigianella da quattro soldi come Leorizio non si è peritata di attaccare per iscritto Teofrasto? E' vero che sapeva parlare con cognizione di causa ed in perfetto stile classico, ma era sempre una cortigiana! Ecco a che punto di spudoratezza è giunto il giardino di Epicuro!
Voi però avete la coda di paglia ed il vostro Zenone, se criticato, era capace di venire alle mani. E non parliamo poi di Albucio! Quanto a Fedro fu senz'altro un uomo di raffinata cultura quant'altri mai, ma guai a rivolgergli il minimo appunto! Eppure Epicuro attaccò Aristotele nel modo più offensivo indirizzò le più volgari ingiurie contro Fedone, il discepolo di Socrate e distrusse con interi volumi Timocrate, fratello del suo amico Metrodoro, per non so più quale dissenso nel campo della filosofia; persino nei riguardi di Democrito, di cui seguì le orme, si mostrò ingrato e il suo maestro Nausifane, dal cui insegnamento non trasse alcun frutto, ebbe da lui il bel trattamento che sappiamo.
Zenone poi, non si limita a colpire con male parole i suoi contemporanei come Apollodoro, Sillo e tutti gli altri ma, ricorrendo ad una frase latina, gratificava col titolo di " buffone attico " lo stesso Socrate, padre della filosofia e non si rivolgeva mai a Crisippo senza chiamarlo Crisippa.
94. E anche tu poco fa, quando hai passato in rassegna tutta l'assemblea dei filosofi, se così possiamo definirla, hai chiamato gli uomini più illustri stolti, pazzi e dementi. Eppure se nessuno di questi uomini è riuscito a penetrare la vera natura della divinità c'è seriamente da temere che gli dèi non esistano affatto.
Quanto alle vostre affermazioni sono tutte fantasticherie a mala pena degne della fantasia di una vecchierella esaltata. Gli è che voi non vi accorgete a quali ammissioni dovreste arrivare se riusciste a farci ammettere che gli dèi e gli uomini hanno l'identico aspetto. La divinità dovrebbe preoccuparsi e prendersi cura della propria persona così come facciamo noi: dovrebbe badare cioè al suo modo di camminare, di correre, di sdraiarsi, di inchinarsi, di sedersi, di afferrare gli oggetti ed, infine, anche al linguaggio da usare nella conversazione usuale ed in quella più impegnata.
95. Quanto poi alla distinzione fra maschi e femmine che esisterebbe anche fra gli dèi, lascio trarre a voi le conseguenze. Da parte mia resto sempre più meravigliato di come il vostro capo non sia potuto giungere a simili conclusioni.
Voi però continuate a sostenere che la divinità è felice ed immortale! Eppure che cosa impedisce che un essere sia felice anche se non possiede due piedi? Perché mai codesto stato di felicità o di beatitudine che dir si voglia (nessuno dei due termini rende adeguatamente il senso, ma occorre con l'uso piegarli ad esprimerlo) o comunque ti piaccia chiamarlo non dovrebbe poter toccare al nostro sole o al nostro mondo o ad un principio intelligente eternamente operante anche se privo della caratteristica struttura e configurazione del corpo umano?
96. Voi in realtà vi siete limitati ad ammettere di non aver mai visto il sole od il mondo in preda alla felicità. Ma dimmi ancora, hai mai visto un altro mondo oltre il nostro? No di certo. Ed allora come hai potuto azzardarti a postulare l'esistenza di un numero illimitato di mondi e non piuttosto solo di seicentomila? Dirai che te lo ha suggerito la ragione.
Ma allora perché questa stessa ragione non ti suggerirà che, se l'oggetto della nostra ricerca è un essere al di sopra di tutti gli altri, eterno e felice ad un tempo come solo può esserlo una divinità, perché, dicevo, non ti suggerirà che questo essere oltre a sovrastarci per la sua immortalità ci è certamente superiore sia spiritualmente sia fisicamente? Per quale ragione dovremmo assomigliare fisicamente agli dèi pur essendo loro inferiori in tutto il resto? Di fatto a un paragone con la divinità si presterebbero assai meglio le doti morali dell'uomo che quelle materiali.
97. Si può forse cadere in un'ingenuità peggiore di quella di negare l'esistenza (tanto per insistere sullo stesso argomento) delle specie belluine che nascono nel Mar Rosso e in India? Eppure nemmeno gli uomini più seriamente impegnati nelle loro ricerche possono arrivare a conoscere una per una tutte le specie animali che vivono sulla terra, nei mari, nelle paludi, nei fiumi. Ma non siamo autorizzati a negarne l'esistenza per il solo fatto che non le abbiamo mai viste.
Il paragone di cui tanto vi compiacete non ha nulla a che fare con la nostra questione. E ché, il cane non è forse simile al lupo? Non dice forse Ennio: " quanto ci assomiglia quella brutta bestiaccia che è la scimmia "? Diverso però è il sistema di vita di ciascuno. Nessun animale selvatico è più prudente dell'elefante: eppure nessuno ha aspetto più goffo. E mi sto limitando agli animali!
98. Che dire degli uomini? Persone somigliantissime nell'aspetto non presentano forse caratteri affatto diversi e non si ritrova forse lo stesso carattere in individui fisicamente diversissimi?
Bada, Velleio, che se ci incamminiamo per questa strada, chissà dove andiamo a parare! Tu eri partito dall'affermazione che la ragione può albergare solo in un essere " dall'aspetto umano ". Altri però potrà aggiungere: "solo in un essere che viva sulla terra", "solo in un essere che abbia avuto nascimento", "solo in un essere che abbia avuto un processo di progressiva maturazione", "solo in un essere che abbia attinto dall'esterno le proprie cognizioni", "solo in un essere costituito di un'anima e di un corpo caduco e fragile "; ed alla fine concluderà: " solo in un essere umano destinato a morire ". Se per tutte queste conseguenze tu hai pronta un'obiezione non si vede perché la sola figura esterna debba costituire per te una difficoltà. E che l'intelletto e la ragione coesistano nell'uomo accanto alle altre determinazioni di cui ho parlato l'hai constatato anche tu: non c'è quindi ragione perché tu, pur riconoscendo che si possa parlare di dèi anche quando siano state eliminate tali determinazioni, debba porre la condizione che l'aspetto esteriore permanga lo stesso per la divinità e per l'uomo. Il tuo non è ragionare ma è come un trarre a sorte le proprie argomentazioni.
99. A meno che ti sfugga anche questo, che nell'uomo, esattamente come in un albero, tutto ciò che è superfluo e non ha una precisa funzione, costituisce un ostacolo. Così, per esempio, sarebbe una grossa seccatura avere un dito in più dato che le nostre cinque dita non ne hanno punto bisogno ne in funzione estetica né in funzione pratica. Eppure il tuo dio di soverchio non ha solo un dito, ma anche una testa, un collo, le spalle, i fianchi, il ventre, il dorso, i talloni, le mani, i piedi, i femori, le gambe! Se gli si vuol assicurare una vita immortale che cosa hanno a che fare le varie membra con la vita? che c'entra l'aspetto esteriore? Se mai maggiore importanza avrebbero altre parti dei corpo come il cervello, il cuore, i polmoni, il fegato. E' in questi organi che ha sede la vita: non sono certo le fattezze del viso a dare stabilità all'esistenza!
100. Ma tu non ti sei peritato di biasimare coloro che, partendo dalla contemplazione di opere meravigliose ed eccelse, dinanzi allo spettacolo dell'universo nonché delle diverse sue parti quali il cielo, le terre ed i mari e dei suoi ornamenti quali il sole, la luna e gli astri, di fronte al regolare alternarsi delle stagioni, alle loro variazioni ed alle loro vicende hanno ritenuto di dover ammettere l'esistenza di un essere superiore e trascendente che abbia determinato l'insorgere di tali fenomeni e continui a muoverli, a reggerli ed a governarli.
Anche se la loro congettura non coglie nel segno, si comprende tuttavia la strada da essi seguita. Quale fenomeno tu puoi addurre che sia tanto grande ed eccezionale da apparire l'opera di un'intelligenza divina e dal quale tu possa dedurne l'esistenza degli dèi? " L'idea della divinità che reco innata nel mio spirito " rispondi tu. Anche quella dunque di Giove barbato e di Minerva armata di elmo? Pensi davvero che tale sia l'aspetto degli dèi?
101. Molto meglio allora fare come la massa ignorante che non si limita ad attribuire alla divinità, membra umane, ma anche l'uso di tali membra. Forniscono gli dèi di arco, di frecce, di lancia, di scudo, di tridente, del fulmine e pur non riuscendo a scorgere che cosa propriamente facciano gli dèi non sanno concepire una divinità inattiva. Quelli che voi deridete tanto, gli Egiziani, non hanno divinizzato alcun animale se non in virtú dell'utilità che potevano trarne.
Le ibis, per esempio, grazie alla loro alta statura, alla rigidezza delle zampe ed al becco lungo e robusto distruggono una gran quantità di serpenti. Esse, uccidendo ed eliminando i serpenti alati che il vento Africano fa confluire dal deserto Libico, tengono lontana la peste sí che i serpenti non possono nuocere né da vivi col loro morso né da morti col loro fetore.
Potrei parlare dell'utilità delle manguste, dei coccodrilli, dei gatti, ma non voglio dilungarmi troppo. La mia conclusione, ad ogni modo, è che le bestie furono divinizzate dalle popolazioni barbariche in vista dell'utile che ne potevano trarre, mentre i vostri dèi non solo non compiono alcuna buona azione ma non fanno assolutamente nulla.
102. " Ma la divinità è immune da ogni turbamento " mi si dirà. Per questo Epicuro, come fanno i bambini viziati, pensa che non ci sia nulla di meglio che starsene in ozio.
Ma anche i bambini, pur stando in ozio, si danno a qualche gioco. La divinità invece la vorremmo talmente sprofondata nell'ozio da temere che, per poco che si muova, non possa essere felice. Questo modo di ragionare non solo spoglia gli dèi di ogni movimento e di ogni azione divina, ma rischia di impigrire anche gli uomini visto che persino un dio, se compie qualche azione, non può essere felice.
103. Ammettiamo pure con voi che la divinità sia fatta ad immagine e somiglianza dell'uomo. Ma dov'è la sua casa? dove la sua dimora? dove il suo luogo di residenza? quali sono le sue occupazioni, che cos'è che lo rende, come voi dite, felice? Dovrà pure fruire dei suoi beni un essere destinato alla felicità. Anche le creature inanimate hanno una loro specifica sede naturale: la terra occupa la posizione più bassa, sulla terra si versa l'acqua; più su sta l'aria, mentre la posizione più alta è riservata al fuoco. Degli animali alcuni vivono sulla terra, altri nell'acqua, altri ancora ora nell'una ora nell'altra quasi non sapessero decidersi. Di alcuni si dice persino che nascerebbero nel fuoco e si vedrebbero volare nelle fornaci infuocate.
104. Ciò pertanto che io innanzitutto desidero sapere è dove abiti codesto vostro dio; in secondo luogo quale ragione lo fa spostare dalla sua posizione, ammesso che qualche volta si sposti; inoltre, dato che una caratteristica degli esseri viventi è quella di desiderare qualcosa che si confaccia alla loro natura, vorrei conoscere quali siano i desideri degli dèi nonché a quale scopo facciano uso del pensiero e della loro attività razionale; mi si chiarisca, infine, come possano essere felici ed eterni. Qualunque si tocchi di questi punti, si trova subito il lato debole: un ragionamento così male impostato non può trovare una conclusione.
105. Questo è quanto sei venuto dicendo: l'immagine della divinità la si può percepire col pensiero, ma non coi sensi; essa non ha alcuna solida consistenza né si mantiene quantitativamente uguale; la si vede soltanto attraverso una successione ininterrotta di immagini uguali determinate dall'inesauribile affluire di masse atomiche identiche; di qui la conseguenza che la mente dell'uomo, concentrando la sua attenzione su queste immagini, concepisce l'idea di un essere eterno e felice.
Ma, in nome degli dèi di cui stiamo parlando, che faccenda è mai questa? Se gli dèi influenzano solo il nostro pensiero e non hanno né solida consistenza né contorni definiti che differenza c'è fra l'idea di un ippocentauro e quella di un dio? Gli altri filosofi danno a siffatte rappresentazioni mentali il nome di mere immaginazioni, voi invece parlate di immagini che raggiungerebbero e penetrerebbero nel nostro spirito.
106. Quando mi par di vedere Tiberio Gracco concionante in Campidoglio, nell'atto di presentare al popolo l'urna con i suffragi relativi al caso di Marco Ottavio, considero il fenomeno come una semplice immaginazione. Tu pensi invece che le immagini di Gracco e di Ottavio sopravvivano e, una volta giunte sul Campidoglio, si ricostituiscano dinanzi alla mia mente. Lo stesso tu pensi che avvenga per gli dèì la cui frequente rappresentazione colpisce gli animi, donde l'illazione che essi siano eterni e felici.
107. Ma ammettiamo pure che esistano delle immagini che colpiscono il nostro spirito. Si tratterà, però, pur sempre solo di un'immagine che non potrà dirci perché l'essere rappresentato sia eterno e felice.
E quale sarebbe poi la natura e l'origine di codeste vostre immagini? Tutto si riduce ad un'arbitraria teoria che risale a Democrito. Ma Democrito ebbe molte critiche ed una soluzione voi non riuscite a trovarla sí che tutto l'edificio vacilla e minaccia di crollare. Quale teoria è meno dimostrabile di quella secondo cui giungerebbero sino a me le immagini di Omero, di Archiloco, di Romolo, di Numa, di Pitagora, di Platone e non in quella forma che fu loro propria? In che modo questi uomini potranno presentarsi a noi? A chi appartengono le immagini? Aristotele sostiene che il poeta Orfeo non sarebbe mai esistito e che il noto carme a lui attribuito sarebbe opera di un certo Cercone, discepolo di Pitagora. Eppure Orfeo o, meglio, come voi dite, la sua immagine, s'aggira spesso nel mio spirito.
108. Come si spiega che della stessa persona tu ed io abbiamo una immagine diversa, che giungono a noi immagini di esseri che non sono mai esistiti né avrebbero potuto esistere come quelle di Scilla e di Chimera o di uomini, luoghi e città che non abbiamo mai visto? Come si spiega che l'immagine è sempre lì pronta a presentarmisi non appena io lo voglia o che le stesse immagini si presentano anche a chi dorme senza essere chiamate? Gli è che la vostra è una dottrina da burla, ma tanta è la spavalderia delle vostre ciarle che, non contenti delle immagini visive, ne immaginate anche delle spirituali. E con quanta arbitraria tracotanza! voi dite:
109. "Il continuo fluire delle immagini fa sí che al nostro sguardo ne appaia una sola." Sarebbe una vergogna per me ammettere la mia incapacità di comprendere simile affermazione, ma solo a patto che voi ne capiste qualcosa. Come dimostri il continuo fluire delle immagini? Ed anche ammesso che tu riesca a dimostrarlo, come ne provi l'eternità? "
Provvede alla bisogna " ribatti tu " la massa infinita degli atomi "! Ma questa non basta a far sí che ogni creatura sia eterna. Tu ricorri allora alla legge dell'equilibrio (così, se vuoi, potremmo rendere il termine isonomian) ed affermi che se esiste una sostanza mortale ne deve esistere anche una immortale.
Ragionando così, però, si finisce col dover ammettere che il fatto che gli uomini sono mortali implichi che ve ne siano di immortali e che il fatto che nascono sulla tetra rechi con sé la conseguenza che ve ne siano alcuni che nascono nell'acqua. " E poiché vi sono delle forze intese a distruggere " aggiungete voi " ve ne sono anche di intese a conservare ". Ed ammettiamo pure che esistano: esse ad ogni modo potranno conservare soltanto ciò che realmente esiste, mentre l'esistenza di codesti vostri dèi io non riesco proprio a comprenderla.
110. Come può nascere da particelle indivisibili l'immagine degli oggetti di cui voi parlate? Ammesso e non concesso che tali particelle esistano potranno al più urtarsi e venire a collisione fra loro: non riusciranno mai però a dare forma, figura, colore e vita alle cose. In conclusione non riuscite in alcun modo a fare della divinità un essere eterno.
Passiamo ora alla questione della felicità divina. Certo la felicità non può andare disgiunta dalla virtù; ma la virtù è fondata sull'azione ed il vostro dio, non facendo nulla, non può essere virtuoso; di conseguenza non sarà neppure felice.
111. E in che consisterà la sua vita? "In una continua successione di beni - rispondi tu - senza che intervenga alcun male". Ma di quali beni, infine? Dei piaceri, penso, che, in quanto tali, riguardano il corpo: non v'è alcun piacere dell'anima - tu lo sai - che non parta dal corpo e non si ripercuota su di esso. Non penso che tu, Velleio, sia come quegli epicurei che si vergognano di certe affermazioni di Epicuro, là dove dice di non concepire alcun bene che sia disgiunto da quei molli e voluttuosi piaceri che egli stesso viene enumerando senza arrossire.
112. Orbene, quale cibo, quale bevanda, quale varietà di suoni e di colori, quali carezze, quali profumi potrai recare in dono agli dèi per immergerli nel piacere? I poeti offrono loro nei banchetti nettare ed ambrosia facendo di Ebe e di Ganimede i coppieri degli dèi. Tu invece, Epicuro, che farai? Non vedo donde il tuo dio possa trarre queste gioie né come possa goderne. Il genere umano, godendo di una maggior varietà di piaceri, è assai più della divinità destinato ad una vita felice.
113. Tu però consideri frivoli questi piaceri che si limitano a solleticare (così dice Epicuro) i sensi. Ma dimmi un po', fino a quando continuerai a scherzare? Anche il nostro Filone indispettiva se degli epicurei affettavano disprezzo per le mollezze ed i piaceri: con eccezionale memoria ripeteva parola per parola molte massime di Epicuro al riguardo e di Metrodoro, rappresentante anch'egli, con Epicuro, di quella filosofia, riportava dei pensieri ancora più audaci. E' Metrodoto che rimprovera al fratello Timocrate di non essere ben certo che il ventre sia l'unità di misura di tutto ciò che arreca piacere: e non lo dice una sola volta ma molto spesso. Vedo che annuisci come di cose a te già note; dei resto, se tu negassi, ti presenterei i libri a riprova. Non è qui mia intenzione di confutare la riduzione di ogni bene al piacere: quella è un'altra faccenda. Voglio semplicemente dimostrare che i vostri dèi non godono di alcun piacere e che quindi, stando ai vostri principi, non possono essere felici.
114. Voi obbiettate che non soffrono alcun dolore. Ma è sufficiente ciò a giustificare quella loro vita dotata d'ogni bene e perfettamente felice? " La divinità - mi si dice - pensa di essere eternamente felice non avendo alcun'altra cosa di cui preoccuparsi ". Ma tu cerca di raffigurarti con l'immaginazione un dio che per tutta l'eternità non formuli alcun altro pensiero se non questo: " lo sto bene. Io sono felice "! Non vedo neppure come a codesto dio felice non possa sopravvenire il timore della morte dal momento che è incessantemente colpito ed agitato da un diuturno incontro di atomi e da lui si dipartono ad ogni istante delle immagini. Così il vostro dio non è felice né eterno.
115. Eppure Epicuro ha scritto persino dei libri sulla santità e sulla pietà nei riguardi degli dèi ". E in che modo ne parla? In guisa tale che diresti di udire i pontefici massimi Coruncanio e Scevola, non colui che ha estirpato dalle radici ogni idea religiosa e non con le mani, come Serse ma con argomentazioni, ha abbattuto i templi e gli altari degli dèi immortali. Che motivo hai di affermare che gli uomini debbono prendersi cura degli dèi dal momento che gli dèi, a loro volta, non si limitano a disinteressarsi degli uomini ma si disinteressano di ogni altra cosa e non svolgono alcuna attività.
116. Essi, si obietterà, posseggono una natura così eccelsa ed elevata da indurre di per se stessa gli uomini saggi ad onorarla. Ma come ammettere una qualsiasi superiorità in un essere cui nessuna attività sia attribuibile né in passato né al Presente né in futuro? Quale tributo di pietà può essere dovuto a colui dal quale nulla si è ricevuto? Quale obbligo si può avere verso chi nessun merito si è fatto nei nostri riguardi? La pietà altro non è che il giusto culto che noi tributiamo agli dèi: ma quale rapporto di giustizia vi può essere con essi dal momento che gli uomini nulla hanno da spartire con la divinità? Per santità si intende la scienza del culto divino ma io non vedo perché si dovrebbero onorare gli dèi se di nessun bene essi fossero largitori o garanti.
117. Che ragione c'è poi che noi veneriamo gli dèi in virtù dell'ammirazione che dovrebbe destare in noi quella loro presunta natura nella quale nulla riusciamo a scorgere di particolare?
E' facile infatti liberarsi - e ciò costituisce il vostro vanto - dal timore superstizioso una volta tolta di mezzo la potenza divina; sempre che tu non ritenga che si possano tacciare di superstizione uomini quali Diagora o Teodoro che negarono dei tutto l'esistenza degli dèi. Per conto mio superstizioso non lo fu neppure Protagora che non accettò nessuna delle due tesi, né quella dell'esistenza degli dèi ne quella della loro non esistenza. Le opinioni di tutti costoro non si limitano ad eliminare la superstizione che reca con sé un inconsistente timore degli dèi, ma anche la religione che consiste in una pia devozione verso la divinità.
118. E che dire di coloro che nell'idea della divinità videro esclusivamente un'invenzione dei saggi escogitata per fini politici, per far sí, cioè, che la religione inducesse a compiere il loro dovere coloro che la ragione non riuscisse a convincere? Non abbatterono costoro dalle fondamenta ogni religione? E Prodico di Ceo, secondo il quale sarebbe stato annoverato fra gli dèi tutto ciò che potesse giovare alla vita umana, che cosa propriamente lasciò sussistere della vera religione?
119. Non sono forse privi di ogni sentimento religioso coloro che affermano che uomini valorosi, illustri e potenti fossero divinizzati dopo la morte e che sono essi coloro che noi siamo soliti onorare, pregare e venerare? Questa dottrina ebbe in Evemero il suo massimo sostenitore che fu tradotto e seguito soprattutto dal nostro Ennio. Evemero giunse al punto dì specificare anche il genere di morte ed il luogo di sepoltura degli dèi. Orbene, ti sembra che costui abbia rafforzato o non piuttosto eliminato del tutto il sentimento religioso? Lascio da parte il sacro ed augusto santuario di Eleusi, "Lá dove le genti venute da terre remote r'iniziano", lascio da parte Samotracia e quei misteri che a Lemno "con notturno corteo occulti si celebrano protetti da siepe silvestre"; trattandosi di riti la cui spiegazione e giustificazione razionale ci fa conoscere più la natura che gli dèi.
120. Anche Democrito, uno degli uomini più grandi, alla cui fonte Epicuro attinse le acque per irrigare i suoi orticelli, non mi sembra avere idee molto precise sulla natura degli dèi. Talora sostiene che nell'universo vi sarebbero delle immagini dotate di natura divina, altre volte identifica con gli dèi gli elementi costitutivi della mente pure esistenti in questo medesimo universo; ora ci parla di immagini animate che sarebbero solite esercitare un'azione di volta in volta benefica o nociva su di noi, ora di certe immagini enormi e così grandi da abbracciare dal di fuori l'intero universo.
Tutte idee, queste, assai più degne dei paese di Democrito che della sua persona;
121. chi infatti potrebbe raffigurarsi mentalmente tali immagini, chi ammirarle, chi ritenerle degne di un culto religioso?
Epicuro togliendo agli dèi immortali la facoltà di soccorrere e di ricambiare i benefici sradicò del tutto dall'animo umano la religione. Pur ribadendo la superiorità e l'eccellenza della natura divina le tolse il potere di provare riconoscenza, le tolse cioè proprio la caratteristica peculiare di ogni essere veramente superiore. Che cosa v'è di superiore o di più apprezzabile di una fattiva bontà? Ma voi togliendo alla divinità tale prerogativa fate in modo che nessuno, sia esso uomo o dio, sia caro alla divinità e ne riceva l'amore e l'affetto. Ne deriva così che non solo gli dèi si disinteressano degli uomini, ma anche gli dèi gli uni degli altri.
Quanto è migliore la posizione degli Stoici che voi criticate! Per loro i sapienti sono amici degli altri sapienti anche se non li conoscono: nulla è più amabile della virtù e chiunque sia riuscito a conquistarla, dovunque si trovi, merita il nostro amore.
122. Voi invece sbagliate di grosso facendo della bontà e della benevolenza una debolezza. Lasciamo da parte quelle che sono le possibilità e gli attributi divini: credete davvero che gli uomini non possano volere od operare del bene senza essere dei deboli? Non esisterebbe dunque un naturale affetto fra i buoni? Lo stesso vocabolo "caro" significa amore, donde fu tratto il termine "amicizia" : quell'amicizia che, se indirizzata a vantaggio nostro e non di colui che amiamo, non sarà vera amicizia ma una sorta di baratto. dei propri vantaggi.
Così noi amiamo i prati, i campi ed il bestiame per gli utili che ne ricaviamo: l'amicizia e l'affetto fra gli uomini invece sono disinteressati e tanto più lo saranno fra gli dèi che, pur non abbisognando di nulla, si amano fra loro e provvedono agli uomini. Perché altrimenti venerare e pregare gli dèi? A che scopo preporre i pontefici alla celebrazione dei sacri riti e gli auguri alla ricerca degli auspici? A che scopo esprimere dei desideri e formulare dei voti? "Ma c'è persino un libro di Epicuro sulla santità".
123. E' vero, ma questo è uno scherzo di un uomo non tanto spiritoso quanto libero di scrivere le sciocchezze che vuole. Come può esistere la santità se gli dèi non si occupano delle faccende umane? E come può esistere una creatura vivente che non si curi di nulla? Assai piú vicina al vero è senza dubbio la tesi sostenuta da Posidonio nel quinto libro del suo trattato sulla natura degli dèi. Pensa Posidonio che Epicuro non credesse affatto negli dèi e che parlasse di loro solo per evitare l'odiosità connessa con l'ateismo: non sarebbe stato tanto sciocco dall'immaginare un dio simile ad un uomo qualsiasi e, per giunta, solo nelle forme esteriori, ma senza concreta consistenza, fornito di tutte le membra proprie dell'uomo, ma senza alcuna possibilità di farne uso, sottile e trasparente, incapace di donare o di beneficare chicchessia, alieno da ogni preoccupazione od attività. Ma un essere del genere non può innanzitutto, esistere ed Epicuro, accorgendosi di questo, finì con l'eliminare di fatto gli dèi lasciandoli sopravvivere soltanto a parole.
124. Inoltre, se per estrema ipotesi, la divinità è davvero tale da non provare né riconoscenza né amore, buon pro le faccia! Perché dovrei esclamare: "mi sia propizia"? Non può essere propizia a nessuno dal momento che, come voi dite, ogni sentimento di gratitudine e di benevolenza è indice di debolezza.


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