Cicerone:
Sulla natura degli dei III |
LIBRO III°
1. A queste parole di Balbo, Cotta sorrise e "troppo tardi,
disse, o Balbo, mi suggerisci una tesi da sostenere. Già durante la
tua esposizione ero venuto considerando fra me le possibili obiezioni,
non tanto per confutarti quanto per chiarire meglio i punti che mi
riuscivano oscuri. D'altra parte poiché ciascuno ha il diritto di
pensarla a modo suo è
difficile che io posso fare mio il tuo stesso pensiero".
2. Al che Velleio: "Non immagini neppure, Cotta, con quanto
desiderio mi disponga ad ascoltarti. Se per il nostro Balbo è stato
un piacere sentirti parlare contro Epicuro, da parte mia presterò la
massima attenzione a ciò che dirai contro gli Stoici. Spero che anche
questa volta tu sii come sempre bene agguerrito".
3. Cotta allora: "Proprio così, caro Velleio, disse, ma la mia
polemica con Lucilio non è la stessa che con te". "In che
senso?" chiese quello. "Nel senso che il vostro Epicuro non
mi sembra si prenda molta cura degli dèi immortali.
Gli manca solo il coraggio di negarne l'esistenza per sfuggire
all'impopolarità od alla taccia di ateismo, ma quando sostiene che
gli dèi non fanno nulla, non si curano di nulla e che, benché
forniti di membra umane, non ne fanno alcun uso, pare proprio che
scherzi o che, comunque, creda sufficiente affermare che esiste un
essere eterno e felice.
4. Hai sentito invece quale ricchezza di argomentazioni ha saputo
addurre Balbo e con quanta proprietà e coerenza, anche se non con
altrettanta verità. Perciò - l'ho già detto - la mia intenzione non
è tanto di confutare la sua esposizione quanto di chiarire i punti
per me meno chiari. Ed ora a te, Balbo, la scelta: preferisci
rispondere punto per
punto ai miei quesiti ed ai miei dubbi o vuoi ascoltare prima tutta la
mia esposizione? "
Al che Balbo: "Se si tratta solo di qualche chiarimento
preferisco darlo senz'altro; se invece è tua intenzione farmi delle
domande non tanto per capire, quanto per confutare, farò come tu
vorrai: risponderò subito ai singoli quesiti o a tutti i punti
insieme una volta terminato il discorso".
5. Cotta allora: "Benissimo, concluse, procediamo pure in base al
filo stesso del discorso. Ma prima di affrontare l'argomento, parliamo
un poco di me. Non poco peso hanno per me la tua autorità e le parole
con le quali, nella tua perorazione, mi hai esortato a ricordarmi del
mio nome e della mia carica di pontefice io penso, significa che
sarebbe
mio dovere difendere le credenze tradizionali sugli dèì immortali,
le pratiche reli giose, le cerimonie, i riti.
Ci tengo a dire che le difenderò sempre come sempre le ho difese e
non c'è discorso di sapiente o di ignorante che possa distogliermi
dalla mia fede nel culto tradizionale degli dèì che gli avi ci hanno
trasmesso. In fatto di religione seguo i pontefici massimi Tiberio
Coruncanio Publio Scipione e Pubilo Scevola non già Zenone, o
Cleante, o Crisippo e
preferisco sentir parlare di questioni religiose Gaio Lelio, augure e
filosofo ad un tempo, nella sua famosa orazione piuttosto che
qualsiasi sommo rappresentante della scuola stoica.
Tutto il rituale religioso dei Romani si riduce alle cerimonie sacre
ed agli auspici; a questi si potrebbe aggiungere un terzo elemento
consistente negli ammonimenti che gli interpreti della Sibilla e gli
aruspici, nello sforzo di predire il futuro, hanno ricavato dai
portenti e dai prodigi. Nessuno di questi riti ho mai pensato che si
dovesse trascurare e sono convinto che Romolo e Numa Pompilio
gettarono le fondamenta della nostra città il primo ricorrendo agli
auspici ed il secondo creando il rituale religioso ne essa avrebbe
potuto essere così grande senza un particolare favore degli dèi
immortali.
6. Ora, Balbo, sai che cosa io pensi come Cotta e come pontefice:
spetta a te, quindi, espormi la tua opinione. Tu sei un filosofo e da
te io debbo ricevere una giustificazione razionale delle credenze
religiose, ma e mio dovere credere ai nostri maggiori anche senza
nessuna prova.
"E quale è la giustificazione razionale che tu desideri da
me?" chiese allora Balbo. E Cotta: "Tu avevi distinto nella
trattazione di questo problema quattro momenti consistenti,
rispettivamente, nell'affermazione che gli dèi esistono, nella
illustrazione della loro natura, nella dimostrazione che sono essi a
governare il mondo e, infine, nella
dimostrazione che essi si occupano delle cose degli uomini. Questa, se
ben ricordo, è stata la tua partizione dei problema".
"Proprio così, rispose Balbo, ma tu dimmi che cosa vuoi
sapere".
7. E Cotta: "Consideriamo, disse, ogni singolo punto. E' vero che
la prima affermazione, quella relativa alla esistenza degli dèi,
trova tutti d'accordo, a meno che non sì tratti di atei incalliti
nell'empietà, e non c'è fuoco che riuscirebbe a cancellarla dalla
mia mente: tu però non mi dimostri per quale ragione questa verità,
di cui io sono fermamente convinto sulla base dell'autorità dei
nostri antenati, sia veramente tale". "Ma se tu ne sei
convinto - soggiunse allora Balbo - che motivo c'è che io te la
dimostri?"
E Cotta: "La ragione è che io voglio accingermi a questa
discussione immaginando di non saper nulla degli dèi e di non aver
mai riflettuto su questo problema. Tu accoglimi come un discepolo
digiuno di scienza ed ancora da formare e insegnami ciò che desidero
conoscere".
8. "Dimmi dunque ciò che desideri sapere". "Che cosa
voglio sapere? Spiegami anzitutto perché hai speso tante parole per
chiarire una verità tanto evidente a proposito della quale visto che
sull'esistenza degli dèi non ci sono dubbi e sono tutti d'accordo -
tu stesso avevi riconosciuto che non c'era neppure bisogno che se ne
parlasse".
"Per la stessa ragione per la quale, Cotta, nei tuoi discorsi
forensi so che ti sforzi di sommergere il giudice coi maggior numero
di argomenti possibile, per poco che la causa ti fornisca tale
opportunità. E' lo stesso metodo seguito dai filosofi ed anch'io mi
sono sforzato di imitarlo. Facendomi quella domanda è come se tu mi
chiedessi perché mai tu
guardi con ambedue gli occhi e non ne chiuda uno pur potendo
realizzare lo stesso scopo con un occhio solo".
9. E Cotta: "Fino a che punto sia valido il paragone spetta a te
determinarlo. Per quanto mi concerne non è mia abitudine accumulare
prove per dimostrare una verità evidente sulla quale tutti convengono
(la chiarezza si offusca col troppo argomentare) e anche nel caso che
mi comportassi cosi nelle cause forensi, mi guarderei bene dal fare
altrettanto in una questione così delicata.
Non vi sarebbe alcuna vera ragione di chiudere un occhio dal momento
che entrambi hanno lo stesso campo di visione e la natura, che tu
consideri saggia, ha voluto che gli occhi fossero per l'anima come due
finestre aperte.
Sull'esistenza degli dèi invece tu hai accumulato prove su prove
perché non eri ben convinto che questa verità fosse evidente come tu
avresti voluto. Per me un unico argomento sarebbe stato sufficiente:
la tradizione dei nostri padri. Ma tu disprezzi l'autorità e combatti
le tue battaglie con la ragione;
10. permetti dunque che le mie argomentazioni vengano a contrasto con
le tue. Adduci tutte queste prove per dimostrare che gli dèi esistono
e, intanto, col tuo argomentare rendi dubbia una verità che, a mio
parere, non lo è affatto.
Ricordo noti solo il numero ma anche la successione delle tue
argomentazioni. La prima sarebbe che alla vista del firmamento subito
comprendiamo che deve esistere una volontà suprema che governa i
corpi celesti. Di qui anche la citazione del verso:
"Contempla quell'essere che in alto risplende, che tutti invocano
col nome di Giove".
11. come se qualcuno di noi desse il nome di Giove a quest'essere e
non al nostro Giove Capitolino o come se fosse chiaro ed evidente a
tutti che sono divini degli esseri cui Velleio ed altri ancora negano
persino la vita!
Altra importante prova era per te il fatto che la credenza negli dèi
è generale e si estende sempre più. Ma come potete voi giudicare
questioni di tanta importanza fondandovi sull'opinione della massa
ignorante, soprattutto voi che considerate questa massa in preda alla
follia?
A questo punto mi obietterai: "ma a noi capita di vedere gli dèi
di persona, come li vide Postumio presso il lago Regillo e Vatinio
sulla via SaIaria (per non parlare di certi racconti relativi alla
battaglia combattuta dai Locresi presso il Sagra). Ma credi davvero
che quelli che tu hai chiamato Tindaridi, cioè uomini nati da uomini,
e che Omero più
vicino a loro nel tempo, dice sepolti a Sparta, si siano presentati
per istrada a Vatinio senza seguito, su dei ronzini bianchi e abbiano
scelto, per annunciare una vittoria nazionale, un uomo rozzo come
Vatinio invece di Marco Catone che occupava allora la posizione più
elevata? Pensi dunque che quella specie d'impronta di un piede equino
che oggi si può vedere presso il lago Regillo appartenga al cavallo
di Castore?
12. Non preferisci credere - il che può essere dimostrato - che le
anime degli uomini illustri quali furono appunto i Tindaridi, abbiano
natura divina ed eterna anziché immaginare che essi, benché bruciati
sul rogo, abbiano potuto cavalcare e partecipare ad una battaglia? 0
almeno, ammesso che ciò possa essersi verificato, dovresti spiegarci
in che modo, se non vuoi raccontare delle frottole".
13. "E ti sembrano frottole" ? intervenne allora Lucilio.
"Non hai visto nel foro il tempio dedicato da Appio Postumio a
Castoree Polluce? Non conosci il decreto del Senato relativo a Vatinio?
Basti dire che c'è in Grecia un proverbio popolare per cui quando si
vuole ribadire l'autenticità di un fatto si dice che è più vero
degli avvenimenti del Sagra. Non ti dicono nulla testimonianze come
queste?" E Cotta: "Tu Balbo, discuti con me con dei - sì
dice -, mentre io da te esigo delle prove"*
14. seguono le vicende future: nessuno può sottrarsi a ciò che è
stabilito che avvenga. Sovente non è neppur utile conoscere
l'avvenire. E' triste che un uomo si affligga inutilmente senza avere
neppure l'estrema consolazione, a tutti concessa, di poter sperare,
tanto più che voi affermate che tutto avviene per volere del fato,
intendendo per fato ciò che, da tutta l'eternità, è stato sempre
vero. Che giova dunque e quale contributo reca alla nostra
salvaguardia la conoscenza di un avvenimento futuro dal momento che
esso dovrà necessariamente verificarsi?
E poi che origini ha questa vostra divinazione? Chi ha scoperto la
tecnica dell'incisione dei fegato? Chi ha intrapreso a tener conto dei
grido della cornacchia? Chi a gettare le Sorti? Io credo a tutte
queste cose e mi guarderei bene dal disprezzare il bastone di Attio
Navio da te ricordato, ma è dai filosofi che debbo apprendere come
questi fatti
siano stati compresi e riconosciuti specie se si considera che in
moltissimi casi codesti indovini mentono.
15. "Ma anche i medici - mi dicevi - spesso sbagliano". E
con ciò? Che ha di simile la medicina, di cui conosco i fondamenti
razionali, con la divinazione di cui non comprendo l'origine? Tu pensi
che il sacrificio dei Decii abbia placato gli dèi. Ma come hanno
potuto gli dèi essere tanto ingiusti da non essere disposti a
riconciliarsi col popolo Romano se non in cambio della morte di uomini
siffatti?
In realtà quella dei Decii fu semplicemente una mossa strategica o
stratagemma, come la chiamano i Greci, dovuta però all'iniziativa di
generali che anteponevano il bene della patria alla propria vita. Era
loro convinzione che se un comandante si fosse lanciato a briglie
sciolte contro il nemico il suo esercito l'avrebbe seguito, come di
fatto avvenne. Quanto alle voci dei Fauni non ne ho mai udita una. Se
tu dici di averla udita posso anche crederci, ma che cosa sia un Fauno
proprio non lo so.
Per quanto dipende da te, Balbo, non mi fornisci alcun elemento che mi
aiuti a comprendere che gli dèi esistono.
Credo nella loro esistenza, ma gli Stoici non hanno nulla da
insegnarmi al riguardo.
16. Cleante, come tu mi hai riferito, fissa a quattro i modi
attraverso i quali si verrebbe costituendo nella mente dell'uomo la
nozione della divinità. Il primo è quello di cui ho già parlato e
si fonda sulla anticipata percezione degli eventi futuri; il secondo
si basa sulle perturbazioni meteorologiche e su altri fenomeni
analoghi; il terzo sulla abbondanza dei beni a nostra disposizione; il
quarto sulla costante regolarità dei moti celesti. Della previsione
del futuro s'è già detto. Per quanto concerne le perturbazioni
meteorologiche ed i movimenti del mare e della terra è innegabile che
quando avvengono molti sono coloro che li temono e ne attribuiscono
l'origine agli dèi immortali;
17. la questione però non è se vi sia gente che crede negli dèi,
bensì se essi esistano o no. Quanto alle altre ragioni addotte da
Cleante, l'abbondanza dei beni a nostra disposizione e la costante
regolarità dei moti celesti, se ne parlerà al momento in cui
affronteremo il tema della provvidenza divina sul quale tu, Balbo, hai
speso tante parole.
18. Rimanderemo a quel momento anche l'argomento da te attribuito a
Crisippo secondo il quale l'esistenza in natura di qualcosa che non può
essere l'opera dell'uomo implicherebbe l'esistenza di un essere
superiore all'uomo nonché il tuo paragone di una bella casa con la
bellezza dell'universo e le osservazioni sull'armonia ed unicità di
intenti
dell'universo.
Nella parte di cui s'è detto mi riservo anche di riesaminare le brevi
ed acute conclusioni di Zenone e nel contempo verrà preso in
considerazione al momento opportuno tutto quanto tu hai detto in campo
fisico sulla sostanza del fuoco e su quel calore che per te sarebbe
alla base della generazione di tutte le creature. A quel punto della
trattazione rimando altresì l'esame del tuo discorso di ier l'altro
quando ti sforzavi di dimostrare l'esistenza degli dèi partendo dal
presupposto che l'intero universo, il sole, la luna e le stelle
abbiano sensibilità e intelligenza.
19. A te però chiedo ancora su che cosa poggi il tuo convincimento
che esistono gli dèi.
E Balbo: "A dire il vero a me sembra di averlo chiarito, ma sei
tu che mi confondi col tuo modo di ribattere: quando sembra che tu
stia per farmi una domanda ed io mi preparo a darti una risposta
subito svii il discorso e non mi permetti di rispondere. Si sono anche
passati sotto silenzio molti punti importanti relativi alla dottrina
della divinazione
e dei fato, questioni di cui tu hai trattato piuttosto in breve, ma
sulle quali quelli della nostra scuola sogliono soffermarsi a lungo.
Si tratta però di argomenti distinti dal problema che ora ci
interessa. Perciò, se non ti dispiace, cerca di procedere con ordine
e lascia che in questa discussione si chiariscano i termini dei
problema".
20. "Benissimo" riprese allora Cotta. "Visto che in
tutta la questione hai distinto quattro momenti e del primo si è già
parlato, non ci resta che considerare il secondo. A me però sembra
che esso abbia sortito un solo effetto, quello di far sì che proprio
nel momento in cui ti sforzavi di chiarire la natura degli dèi ne
dimostravi implicitamente l'inesistenza. Che sia molto difficile
astrarre il pensiero dalle sensazioni visive sei stato tu a dirlo, ma
non hai poi esitato a sostenere, partendo dal concetto della
superiorità assoluta della divinità, che il mondo si identifica con
essa divinità per il solo fatto che nulla vi è nella realtà di
superiore al mondo. Magari potessimo davvero immaginare il mondo come
fornito di vita, o, meglio, fossimo in grado di percepire questa realtà
con gli occhi dell'anima così come percepiamo con gli occhi sensibili
tutti gli altri oggetti!
21. Ma quando sostieni che nulla vi è di superiore al mondo, che
intendi per "superiore" ? Se intendi "più bello"
sono d'accordo, e così pure se intendi " più adatto a favorire
l'uomo". Se però il senso delle tue parole è che "nulla è
più saggio del mondo" non posso assolutamente seguirti e, bada
bene, non già perché sia difficile astrarre il pensiero
dalle sensazioni visive, bensì perché quanto più cerco di astrarlo,
tanto meno riesco ad afferrare il tuo pensiero.
Voi dite: "Nulla in natura è superiore al mondo". Ma
neppure c'è sulla terra una città superiore alla nostra. Non per
questo però tu affermi che la città possiede ragione, pensiero e
intelligenza e neppure sarai disposto ad anteporre una formica a
questa bellissima città per il solo fatto che mentre nella città non
alberga alcuna facoltà sensitiva, la formica oltre alla sensibilità
possiede anche la capacità di pensare, di ragionare e di ricordare.
Tu, Balbo, devi prima vedere che cosa l'avversario è disposto a
concederti, non già assumere senz'altro la posizione che più ti
piace.
22. Quella breve e, secondo te, acuta argomentazione di Zenone ha
finito per allargare il suo campo di applicazione. Il ragionamento di
Zenone era questo: " chi fruisce di ragione è superiore a chi
non ne fruisce, ma nulla è superiore al mondo; quindi il mondo
fruisce di ragione.
23. Se però accetti questo finirai anche con l'ammettere che il mondo
sia perfettamente in grado di leggere un libro. Sulle orme di Zenone
così potrai argomentare: "chi sa leggere è superiore
all'analfabeta. Ma nulla è superiore al mondo. Dunque il mondo sa
leggere". Avanti di questo passo si dimostrerà che il mondo è
esperto oratore, che conosce la matematica e la musica, che è
istruito in ogni scienza, che è, insomma, un vero filosofo.
Spesso hai affermato che nulla può avvenire senza l'intervento divino
e che non rientra nella facoltà della natura quella di generare
esseri da lei dissimili: dovremmo allora ammettere che il mondo oltre
ad essere fornito di vita e di saggezza sia anche un esperto suonatore
di flauto e di cetra dato che è il mondo a generare gli uomini capaci
di suonare questi strumenti? La verità è che questo padre degli
Stoici non riesce ad addurre alcun argomento che provi la razionalità
e la vitalità del mondo. Il mondo non è dunque un dio, pur non
essendovi nulla che gli sia superiore: non c'è nulla infatti di più
bello dei mondo, nulla di più adatto alla nostra conservazione, nulla
di più piacevole a vedersi e di più ordinato nei suoi movimenti.
E se il mondo non ha natura divina non l'avranno neppure le stelle che
tu enumeravi in gran numero fra gli dèi.
Non a torto, lo riconosco, tu ne apprezzavi i movimenti perennemente
uniformi data la loro straordinaria ed incredibile regolarità.
24. Ma non è detto che tutto ciò che compie costantemente
determinati movimenti debba essere riferito alla divinità e non
piuttosto a forze naturali.
Pensi vi sia qualcosa di piú regolare dell'alternarsi della marea nel
Calcidico Euripo e nello stretto di Messina o del ribollire delle onde
là dove "l'onda impetuosa Libia ed Europa divide"?
Che dire delle marce che si verificano lungo le coste della Spagna e
della Britannia e del loro crescere e decrescere ad ore fisse? Non
possono forse aver luogo senza un intervento divino? Bada che se di
ogni moto e di ogni evento che si verifichi con periodica regolarità
facciamo responsabile la divinità finiremo con l'attribuirle anche le
febbri terzane e le quartane dei cui alterno ricorrere a periodi fissi
nulla v'è di più regolare. Gli è che di tutti questi fenomeni
occorrerebbe dare una spiegazione razionale;
25. ma poiché voi non la potete dare vi rifugiate nelle braccia della
divinità come su di un altare.
Anche Crisippo, secondo te, si esprimerebbe con acutezza, uomo
indubbiamente abile e scaltrito (intendendo per abile chi è in
possesso di un'intelligenza capace di muoversi e di orientarsi
rapidamente e per scaltrito colui il cui pensiero si è rafforzato con
l'esperienza così come le braccia si rafforzano con l'attività
fisica). Dice dunque Crisippo:
"Se v'è qualcosa che l'uomo non è capace di fare, chi la fa è
superiore all'uomo; ma l'uomo non può essere l'autore di quanto
esiste nel mondo e, di conseguenza, il vero autore sarà superiore
all'uomo; ma chi, se non un dio, può sopravanzare l'uomo? Deve quindi
esistere un dio ". Tutta questa argomentazione cade nello stesso
errore di quella già riportata di Zenone.
26. In essa non si precisa che cosa si debba intendere per
"migliore" e per "superiore" né si chiarisce la
differenza fra natura e ragione. Secondo Crisippo se non esistessero
gli dèi non ci sarebbe in tutta la natura alcun essere superiore
all'uomo, ma è poi lo stesso Crisippo a tacciare del massimo
dell'arroganza chi osasse proclamare che non v'è nulla dì superiore
all'uomo. Ammettiamo pure che sia segno di presunzione fare di se
stessi una stima superiore al mondo tutto che ci circonda. Non è però
certo segno di presunzione, bensì di buon senso, constatare che
mentre noi siamo dotati di sensibilità e di ragione, Orione e la
Canicola non posseggono nulla di tutto questo.
Dice ancora Crisippo: "Se una casa è bella, comprendiamo subito
che essa fu costruita per i padroni e non per i topi; allo stesso modo
dobbiamo considerare il mondo come la casa degli dèi". Anch'io
sarei di questo parere se si trattasse di una costruzione e non, come
spiegherò, di una formazione naturale.
27. Mi si obietterà: "Ma Socrate, come si legge in Senofonte, si
chiede donde noi avremmo tratto la nostra anima se già non fosse
esistita nel mondo". Ed io mi chiedo allora donde abbiamo potuto
trarre l'uso della parola, la nozione dei numeri, l'arte musicale: a
meno che non si ammetta che il sole parli con la luna quando si
accosta a noi o che il mondo produca una musica armoniosa, secondo
quanto pensa Pitagora. Questi fenomeni, caro Balbo, sono opera della
natura, e non di una natura che esegue artistici passi di danza, come
dice Zenone (e vedremo poi di che cosa si tratta) bensì di una natura
che imprime movimento ed attività alla totalità degli esseri con
trasformazioni e movimenti suoi propri.
28. Di qui il mio apprezzamento per quanto tu andavi argomentando
circa la regolarità e coerenza della natura che tu dicevi
armonicamente protesa, merce l'ininterrotta coordinazione di tutte le
sue parti, alla realizzazione di un fine.
Non accettavo però l'altra affermazione che cioè tutto questo non
potesse avvenire se non grazie all'opera coordinatrice di un unico
spirito divino. In realtà la coerenza e persistenza dell'insieme è
dovuta a forze naturali e non alla potenza divina; v'è fra le cose
una sorte di unanime accordo (la "simpatia" dei Greci), ma
trattasi di un accordo che quanto più si rivela libero e spontaneo,
tanto meno può essere attribuito alla ragione divina.
29.E come sciogliete voi i ragionamenti di Carneade? "Se nessun
corpo è immortale - così argomenta - nessun corpo può essere
eterno; ma nessun corpo è immortale, né indivisibile né alieno da
decomposizione e dissolvimento. E poiché ogni essere vivente è per
natura suscettibile di influssi esterni, nessuno potrà sfuggire
all'ineluttabile destino di
subire azioni dall'esterno, cioè di sopportare e di soffrire, e se
tale è la natura di ogni essere fornito di vita, nessuno è
immortale.
Analogamente se ogni essere vivente può essere tagliato e fatto a
brani, nessuno sarà indivisibile, nessuno eterno.
Ma ogni essere vivente è naturalmente disposto a ricevere e a subire
violenza dallo esterno: ogni essere vivente sarà dunque
necessariamente mortale e suscettibile di decomposizione e di
dissolvimento.
30. Allo stesso modo in cui, se la cera potesse trasformarsi in altre
sostanze, lo stesso varrebbe anche per ogni oggetto di cera (e per
ogni oggetto di bronzo e d'argento se tale fosse la natura di questi
metalli), analogamente, se tutti gli elementi esistenti in natura di
cui sono composte le cose sono suscettibili di trasformazione, non
potrà esistere alcun corpo che non lo sia. Ma gli elementi di cui si
compongono tutte le cose sono in realtà suscettibili di
trasformazione, proprio come sostenete voi. Ogni corpo è dunque
suscettibile di trasformazione. D'altra parte se potesse esistere un
corpo immortale, non ogni corpo risulterebbe suscettibile di
trasformazione.
Da qui la conseguenza che ogni corpo e mortale. Ogni corpo, di fatto,
e formato o di acqua, o di aria, o di fuoco, o di terra, o di un
miscuglio di questi elementi o almeno di una parte di essi. Ora non v'è
alcuno di questi elementi che non sia destinato a perire;
31. la terra la si può sempre spezzare e ridurre in parti più
piccole, l'acqua è così molle che facilmente si riesce a stringerla
e a sminuzzarla, l'aria e il fuoco poi sono sensibili ad ogni impulso
e la loro sostanza è ciò che di più cedevole e di più dissolvibile
si possa immaginare.
Inoltre tutti questi elementi periscono allorquando si trasformano in
un'altra sostanza, il che avviene quando la tetra si muta in acqua,
dall'acqua nasce l'aria e dall'aria l'etere e quando di nuovo queste
trasformazioni si verificano secondo l'ordine inverso. Se pertanto
tutti gli elementi di cui si compone un essere vivente sono destinate
a perire, non vi è essere vivente che possa durare in eterno.
32. Del resto, anche indipendentemente da queste considerazioni, non
si può trovare alcun essere vivente che non sia nato in un
determinato momento e sia destinato a conservarsi per sempre in
futuro. Ogni essere animato è dotato di sensibilità e in quanto tale
percepisce il caldo ed il freddo, il dolce e l'amaro e non possiede
alcun senso che gli permetta di ricevere le sensazioni piacevoli e di
evitare quelle che piacevoli non sono. Se quindi è sensibile al
piacere lo è anche al dolore. Ma in nessun essere il dolore può
andate disgiunto dalla morte. Bisogna pertanto ammettere che ogni
essere animato è destinato a perire.
33. Inoltre, se v'è un essere insensibile sia al piacere sia al
dolore non può essere fornito di vita. Se quindi un essere animato
deve necessariamente provare queste sensazioni e l'essere che provi
queste sensazioni non può essere eterno, ogni essere animato per il
fatto stesso che prova queste sensazioni non può essere eterno.
Ancora: non esiste essere vivente che non provi sentimenti di
attrazione e di repulsione: lo attrae tutto ciò che si accorda con la
sua natura e lo respinge ciò che le è contrario. E' un fatto che
ogni animale desidera determinate cose e rifugge da altre. Ciò da cui
rifugge è contrario alla sua natura e ciò che è contrario alla sua
natura lo è in quanto ha in sé la possibilità di distruggerla. E'
quindi ineluttabile che ogni animale sia destinato a perire.
34. Innumerevoli sono le ragioni che ci costringono a concludere che
non esiste essere dotato di sensibilità che non sia destinato a
perire. Le stesse sensazioni di caldo e di freddo, di piacere e di
dolore e tutte le altre consimili quando raggiungono un certo grado
uccidono, e poiché non esiste animale privo di sensibilità, nessuno
potrà essere
eterno.
Quanto alla sostanza costitutiva di un essere vivente o si
identificherà con un singolo elemento come la terra, il fuoco, l'aria
e l'acqua (il che sfugge ogni possibilità di comprensione) o risulterà
costituita di più elementi, ciascuno dei quali ha una posizione sua
propria cui tende per forza di natura, in alto l'uno, in basso
l'altro, al centro un terzo. Questi elementi possono stare insieme per
un certo periodo di tempo, ma non possono certo starlo sempre in
quanto ciascuno di essi non può non essere tratto, ad un certo
momento, laddove tende per natura. Nessun essere vivente dunque può
essere eterno.
35. Quelli della scuola dei nostro Balbo sono soliti ridurre tutto al
fuoco rifacendosi, a quanto mi sembra di capire, ad Eraclito. Non
tutti però interpretano il pensiero di costui allo stesso modo e, dal
momento che fu proprio lui a non volere di proposito farsi capire, lo
lasceremo da parte. Quanto a voi affermate che ogni forza si
identifica coi fuoco,
che la vita ha termine quando viene a mancare il calore e che in
natura vive e vigoreggia tutto ciò che possiede calore.
Io però non riesco proprio a comprendere perché mai i corpi
dovrebbero perire quando viene loro a mancare il calore e non quando
viene loro a mancare l'acqua o l'aria, specie se si considera che si
muore anche per troppo calore.
36. Ciò che vale per il fuoco vale ovviamente anche per gli altri
elementi. Ma vediamo quale sia la conclusione di tutto ciò. Secondo
voi, penso, non esisterebbe in tutto l'universo nulla di vivente
tranne il fuoco. Ma perché dire "tranne il fuoco" e non
piuttosto "tranne l'aria" che è l'elemento costitutivo
dell'anima degli esseri viventi donde il nome stesso di animale? Su
quale fondamento voi date per dimostrato che l'anima non sarebbe altro
che fuoco? Assai più probabile appare l'ipotesi che l'anima risulti
dall'unione dell'aria col fuoco.
"Ma se il fuoco, soggiungete voi, è di per se stesso fornito di
vita senza essere mescolato con altri elementi, sarà proprio il fuoco
che, albergando nel nostro corpo, determinerà l'insorgere delle
sensazioni e sarà, pertanto, esso stesso dotato di sensibilità".
Anche in tal caso però valgono le stesse obiezioni. Ogni essere
fornito di sensibilità deve necessariamente provare anche piacere e
dolore; ma tutto ciò che è soggetto al dolore è soggetto anche alla
morte; di conseguenza neppure del fuoco potete fare un essere eterno.
37. E non basta. Non siete voi a sostenere che tutto il fuoco ha
bisogno di cibo e non può in alcun modo sopravvivere senza nutrirsi,
e che il sole, la luna e gli altri corpi celesti' traggono nutrimento
dalle acque, gli uni da quelle marine e gli altri da quelle dolci?
Secondo Cleante sarebbe questa la ragione per cui il sole, allo scopo
di non
allontanarsi troppo dal cibo, al momento dei solstizio invernale e di
quello estivo torna indietro senza spingersi oltre. Di tutto questo
argomento tratteremo poco più innanzi. Per ora concludiamo così: ciò
che può perire non è, per natura, eterno: ma il fuoco, se non viene
alimentato, e destinato a perire; il fuoco dunque non è, per natura,
eterno.
38. Per noi e impossibile concepire un dio sfornito di virtù. Ma come
ci regoleremo allora? Gli attribuiremo la virtù della prudenza, cioè
la facoltà di discernere il bene dal male e da ciò che non è né
bene né male? Ma che bisogno ha un essere che non soggiace né può
soggiacere ad alcunché di male di possedere la facoltà di
distinguere il bene dal male? Che bisogno ha di ragione e di
intelligenza? Sono facoltà che a noi servono a chiarire ciò che è
oscuro: ma per un dio non esiste oscurità! Quanto alla giustizia, che
distribuisce a ciascuno il suo, non ha certo nulla a che fare con la
divinità: ammettete voi stessi che essa è una mera creazione della
comunità umana. La temperanza poi si riduce
all'astensione dai piaceri e il volerle assegnare un posto in cielo
significa ammettere implicitamente che lassù vi siano anche i
piaceri. Come concepire, inoltre, un dio forte nel dolore, nella
fatica e nel pericolo se la divinità è indenne da tutto ciò?
39. D'altra parte, però, è anche inconcepibile un dio che non faccia
uso di ragione e che sia sfornito di virtù.
Quando mi volgo a considerare quanto van dicendo gli Stoici non mi
riesce più di giudicare con severità l'ignoranza della massa e delle
persone digiune di cultura. I Siriani adorano un pesce gli Egiziani
hanno divinizzato ogni sorta di animali e in Grecia si è giunti al
punto di elevare molti uomini alla dignità divina come fecero gli
Alabandi per Alabando, i Tenedii per Tene e tutta la Grecia per
Leucotea, precedentemente chiamata Ino e per il figlio Palemone nonché
per Ercole, Esculapio, i Tindaridi. il nostro Romolo e moltissimi
altri che si ritengono accolti in cielo come nuovi cittadini di
recente iscrizione.
40. Queste le credenze di chi noti ha cultura. E voi filosofi che fate
di meglio? Lasciamo pure da parte quanto voi siete venuti affermando
(trattasi indubbiamente di verità di grande portata e di elevato
valore) ed ammettiamo pure che il mondo sia un dio. Sono anche
disposto ad ammettere che esista quell'essere "che in alto
risplende e che tutti
chiamano Giove". Ma perché allora oltre a questo dio ricorriamo
a tutta una serie di divinità? E quanto elevato è il loro numero!
Per me sono decisamente troppi. Basti dire che tu annoveri fra gli dèi
tutte le stelle, una per una, e le chiami o col nome di un animale
come la Capra, lo Scorpione, il Toro, il Leone, o col nome di esseri
inanimati quali l'Argo, l'Altare, la Corona.
41. Ma ammettiamo pure che tutto ciò sia vero: come è possibile, però,
non dico accettare ma anche solo comprendere tutto il resto? Quando
chiamiamo Cerere le messi e Libero il vino usiamo un modo di dire:
pensi davvero che ci possa essere qualcuno tanto pazzo di ritenere che
sia un dio ciò che egli mangia?
Quanto agli uomini divinizzati tu dovrai spiegarmi come un simile
fenomeno sia potuto avvenire o come mai non avvenga più, ed io lo
apprenderò volentieri. Allo stato attuale delle cose non vedo proprio
come l'eroe "cui torce sul monte Eta - sono parole di Accio -
venner recate" abbia potuto da quel rogo ardente trasferirsi
"nella casa eterna dei
padre" : eppure Omero lo fa incontrare agli inferi con Ulisse non
diversamente dagli altri morti.
42. Vorrei anche sapere quale sia propriamente l'Ercole che noi
veneriamo dato che, al dire di coloro che hanno esplorato a fondo i
misteri della letteratura specializzata, di Ercoli ce ne sarebbero
parecchi. Il più antico sarebbe il figlio di Giove e, occorre
precisare, del più antico fra gli dèi di questo nome ché, nella
tradizione letteraria greca, non si parla di un solo Giove ma di
parecchi. Da questa antichis sima divinità recante il nome di Giove e
da Lisitoe sarebbe dunque nato quell'Ercole che, come ci è stato
tramandato, ebbe una rissa con Apollo a proposito di un tripode.
Di un secondo Ercole si tramanda che sarebbe stato un egiziano, figlio
del Nilo e che sarebbe stato lui a compilare le Lettere Frigiesi. Un
terzo Ercole avrebbe fatto parte dei Dattili Frigi e a lui si
tributano onori funebri. Un quarto Ercole è figlio di Giove e di
Asteria, sorella di Latona: è venerato soprattutto a Tiro e gli
attribuiscono una figlia,
Cartagine. Un quinto è quello che in India chiamano Belos. Il sesto
è il nostro Ercole, quello che Giove generò da Alcmena, ma trattasi
del terzo Giove: come chiarirò anche di Giovi la tradizione ne
annovera parecchi.
43. Poiché siamo venuti a parlare di questo argomento ci tengo a
dichiarare che nel culto divino, nel diritto pontificale e nella
nostra tradizione religiosa ho ricevuto migliori insegnamenti da quei
vasetti sacrificali che Numa ci ha lasciati e di cui parla Lelio in
quei suo aureo breve discorso, che dalle argomentazioni degli Stoici.
A sentir voi che
cosa dovrei rispondere ad uno che mi chiedesse: "Se sono dèi
<quelli cui sono dedicati dei templi> sono dunque dee anche le
Ninfe?".
E' un fatto che se lo sono le Ninfe debbono esserlo anche i Pani e i
Satiri: ma poiché costoro non lo sono non possono esserlo neppure le
Ninfe. Eppure sono templi pubblicamente dedicati alle Ninfe. Non
saranno quindi dèi neppure tutti gli altri che posseggono templi loro
dedicati. E non basta. Tu annoveri fra gli dèí Giove e Nettuno.
Quindi sarà un dio anche l'Orco in quanto loro fratello nonché tutti
i fiumi che si dice scorrano agli inferi quali l'Acheronte, il Cocito,
il Flegetonte e anche Caronte e Cerbero dovremo considerare alla
stregua di divinità.
44. Ma poiché questo è inammissibile non sarà un dio di conseguenza
neppure l'Orco. Ma che dire allora dei suoi fratelli? Questo diceva
Carneade non già però per togliere di mezzo gli dèi (che cosa v'è
che meno si addica ad un filosofo?) bensì per dimostrare che gli
Stoici non chiariscono affatto il problema degli dèi. Quindi così
proseguiva: "Se
questi fratelli fanno parte degli dèi come negare la divinità al
padre loro Saturno tanto venerato nelle regioni occidentali?
E se Saturno è un dio bisogna ammettere che sia un dio anche suo
padre iI Cielo e quindi, ammesso questo, che siano altrettanti dèi
anche i genitori del Cielo, l'Etere e il Giorno e tutti i suoi
fratelli e le sue sorelle che nelle antiche genealogie prendono i nomi
di Amore, Inganno, Misura, Lavoro, Invidia, Fato, Vecchiaia, Morte,
Tenebre, Miseria,
Querela, Gratitudine, Frode, Pertinacia, Parche, Esperidi, Sogni,
tutte divinità che dicono figlie dell'Erebo e della Notte.
0 si ammettono tutti questi esseri mostruosi, o si eliminano anche gli
altri.
45. Sosterrai dunque la divinità di Apollo, di Vulcano, di Mercurio e
di tutti gli altri dèi per poi esprimere dei dubbi circa quella di
Ercole, Esculapio, Libero, Castore e Polluce? Bada che questi ultimi
sono venerati allo stesso modo dei primi e c'è chi tributa loro un
culto anche maggiore. Essi, pertanto, anche se nati da madri mortali,
vanno considerati come degli dèi. Come giudicare allora Aristeo, il
figlio di Apollo che dicono abbia scoperto l'ulivo, come giudicare
Teseo, figlio di Nettuno, e tutti gli altri personaggi che ebbero un
dio come padre?
Non fanno anch'essí parte degli dèi? E quelli che ebbero una dea
come madre? Certo ne fanno parte a maggior ragione. Se è vero che
secondo il diritto civile il figlio di madre libera è anch'egli di
condizione libera, secondo il diritto naturale il figlio di una dea è
necessariamente un dio. Così gli abitanti dell'isola di Astipalea
venerano Achille con
grande devozione; e se Achille è un dio lo sono anche Orfeo e Reso in
quanto figli di una Musa: a meno che non si antepongano nozze marine a
nozze terrestri. Se questi ultimi non sono dèi poiché non esiste
alcun luogo in cui venga loro tributato un culto, come potranno
esserlo i primi?
46. Bada che questi onori non vengano attribuiti alle virtù di esseri
umani anziché alla loro immortalità! E mi sembra che anche tu
dicessi questo, caro Balbo! Se consideri Latona una dea come puoi non
fare altrettanto per Ecate che è figlia di Asteria, una sorella di
Latona? E' dunque una dea anche costei? Si direbbe di sì, dal momento
che in
Grecia abbiamo visto altari e templi a lei consacrati. E se costei è
una dea, perché non dovrebbero esserlo anche le Eumenidi? E se lo
sono le Eumenidi, che in Atene hanno un tempio ad esse consacrato e
qui da noi - per quanto io penso di poter ritenere - il bosco di
Furina, sono dee anche le Furie, osservatrici e punitrici dei delitti
e delle scelleratezze.
47. Ché se poi gli dèi intervengono nelle vicende umane si dovrà
considerare come una divinità anche la Nascita cui siam soliti
sacrificare quando nell'agro ardeatino facciamo il giro dei santuari:
trattasi di una divinità che protegge i parti delle matrone e che
trae appunto il nome dall'atto del nascere. Orbene, se la Nascita è
una divinità sono dèi anche tutti quelli da te ricordati: l'Onore,
la Fede, la Mente, la Concordia, nonché la Speranza e la Moneta,
tutte le entità, insomma, che noi riusciamo a concepire nel nostro
pensiero. Sennonché tale conclusione è inverosimile e, di
conseguenza, cade anche il punto di partenza di tutte queste
considerazioni.
Se sono dèi quelli di cui ci è stato trasmesso il culto, perché non
dovremmo annoverare nella stessa categoria anche Serapide ed Iside? E
ammesso che facciamo questo, perché ripudiare gli dèi delle genti
straniere? Porremo dunque fra gli dèi i buoi ed i cavalli, le ibis,
gli sparvieri, i serpenti, i coccodrilli, i pesci, i cani, i lupi, i
gatti e molte altre bestie. Respingendo queste, dovremmo respingere
anche le altre divinità da cui esse hanno tratto origìne.
48. E come si spiega quest'altro controsenso? Ino, benché figlia di
Cadmo, sarà considerata una divinità prendendo il nome di Leucotea
in Grecia e di Matuta da noi, e non si annovereranno invece fra gli dèi
né Circe, né Pasifae né Ecta benché nati da Perseide, figlia
dell'Oceano, e dal Sole? Anche a Circe, è vero, i nostri coloni
Circeiensi
tributano un culto religioso: dovremo per questo, allora, considerarla
come una dea?, Che cosa potrai rispondere a Medea che vanta come nonni
due divinità, il Sole e l'Oceano e che ebbe Ecta come padre e Idia
come madre? Che cosa potrai rispondere al di lei fratello Apsitto (Pacuvio
lo chiama Egialeo, ma l'altro nome è il più usato dagli antichi
scrittori. Se questi non sono dèi, non so proprio cosa ci stia a fare
Ino: l'origine è la stessa.
49. Sono forse dei Anfiarao e Trofonio? I nostri appaltatori delle
imposte, a dire il vero, poiché in Beozia in base al contratto coi
censori erano esentati dalle gabelle i territori di proprietà degli dèì
immortali, sostenevano che non poteva essere immortale chi a suo tempo
fosse stato un uomo. Ad ogni modo, però, se coloro sono delle divinità
lo sarà
certamente anche Fretteo di cui vedemmo in Atene il tempio ed il
sacerdote. E se facciamo di lui un dio, che ragione avremo di dubitare
della divinità di Codro e di tutti coloro che caddero combattendo per
la libertà della patria? Se queste ultime considerazioni sono
inaccettabili non si potranno neppure accettare le premesse da cui
derivano.
50. E' del resto comprensibile che quasi tutte le città, allo scopo
di incrementare il valore e di far si che i cittadini migliori
affrontassero con maggior slancio il pericolo per il bene della
patria, rendessero alla memoria dei loro eroi lo stesso culto che si
tributa agli dèi immortali. E' per questa medesima ragione che in
Atene Eretteo fu annoverato fra gli
dèi assieme alle figlie e, sempre in Atene, v'è il tempio delle
figlie di Leonte detto Leocorio. Gli abitanti di Alabanda venerano
Alabando, fondatore della loro città, al di sopra di ogni altra
autentica divinità, per quanto elevata possa essere. Fu li che
Stratonico, con la sua consueta arguzia, ad un tale che, in polemica
con lui, sosteneva la divinità di Alabando e negava quella di Ercole
"E va bene!, disse, con me se la prenda pure Alabando e con te
Ercole".
51. Quanto alla considerazione che tu, Balbo, traevi dal cielo e dagli
astri non ti accorgi quanto rischiano di portarti lontano? Tu sostieni
che il sole è un dio e così pure la luna e che al primo di questi
due astri i Greci danno il nome di Apollo e al secondo quello di
Diana. Ma se la luna è una dea Lucifero e tutte le altre stelle
erranti rientreranno nel novero degli dèi e così pure le stelle
fisse. Perché allora non porre fra gli dèi anche la figura
dell'arcobaleno? Bello è il suo aspetto e appunto per questo, quasi a
significare ch'esso è provocato da una causa che desta stupore, è
detto figlio di Taumante.
Ora, se l'arcobaleno è un dio, che farai con le nubi? E' un fatto che
l'arcobaleno è costituito dalle nubi assumenti determinati colori : e
si dice che una di esse abbia generato i centauri. Ma divinizzare le
nubi significa divinizzare i fenomeni meteorologici consacrati nei
rituali del Popolo Romano e di conseguenza le piogge, le bufere, le
tempeste, gli uragani saranno da considerarsi alla stregua di
altrettante divinità: del resto i nostri comandanti quando si mettono
in mare sono soliti immolare una vittima ai flutti.
52. Inoltre se il nome Cerere deriva dal verbo gerere (come tu dicevi)
anche la terra è una dea (e tale è ritenuta trattandosi di una
variante della dea Tellus). E se lo è la terra lo è anche il mare,
che tu identificavi con Nettuno, e lo stesso dicasi per i fiumi e le
fonti. Per questo Massa, reduce dalla Corsica, consacro un tempio alla
Fonte e nella
preghiera degli auguri vediamo comparire i nomi Tiberino, Spinone,
Anemone, Nodino e quelli dei fiumi più vicini.
Giunti a questo punto o si procede all'infinito su questa strada o non
si accetta nessuna delle argomentazioni proposte.
Ma poiché questa infinita serie di credenze superstiziose non ha
alcuna possibilità di essere accolta non resta che respingere ogni
singolo punto.
53. La nostra critica va quindi rivolta, o Balbo, anche contro coloro
che attribuiscono a questi dèi elevati al cielo da semplici uomini
quali erano e che noi veneriamo con pietà e con devozione, una
consistenza non reale ma fittizia.
Innanzitutto i cosiddetti teologi ci parlano tre Giovi. I primi due
sarebbero nati in Arcadia ed avrebbero avuto come padre il primo
l'Etere (che si dice abbia generato anche Libero e Proserpina), il
secondo il Cielo, padre di quella Minerva che la tradizione ci
presenta come iniziatrice e creatrice della guerra. Il terzo Giove
sarebbe stato un cretese, figlio di Saturno, il cui sepolcro sarebbe
ancora visibile nell'isola natia.
Anche i Dioscuri hanno in Grecia nomi diversi. Ve n'è un primo gruppo
di tre che in Atene assumono il nome di "duci": figli del
Giove più antico e di Proserpina vengono chiamati rispettivamente
Tritopatreo, Eubuleo, Dioniso. Un secondo gruppo comprende Castore e
Polluce, figli del terzo Giove e di Leda. In un terzo gruppo alcuni
includono Alcone e Melampo nati da Atreo, il figlio di Pelope.
54. Venendo ora alle Muse distingueremo in primo luogo le quattro
figlie del secondo Giove e di Telsinoe, Aede, Arche, Melete; in
secondo luogo le nove figlie dei terzo Giove e di Mnemosine; in terzo
luogo, infine, le figlie di Piero e di Antiopa che i poeti sogliono
chiamare Pieridi e Pierie e che hanno gli stessi nomi e lo stesso
numero delle precedenti.
Benché tu dica che il sole si chiamerebbe così perché sarebbe il
" solo " esistente, quanti soli sono citati dai teologi! Un
primo sole è figlio di Giove e nipote dell'Etere, un secondo è
figlio di Iperione, un terzo ebbe come padre Vulcano, figlio dei Nilo,
e a lui gli Egiziani ascrivono la città detta Eliopoli; un quarto
sole è quello che nacque in Rodi
nei tempi eroici da Acanto, padre di Ialiso, Camiro e Lindo
capostipiti dei popolo rodiese; un quinto è quello che in Colchide
avrebbe dato i natali ad Eeta e a Circe.
55. Anche di Vulcani ce ne sono parecchi. Il primo è figlio del
Cielo, da cui anche Minerva generò quell'Apollo sotto la cui
protezione starebbe Atene al dire degli storici antichi. Il secondo,
figlio del Nilo, assume in Egitto il nome di Opas e si vuole sia il
protettore di quella regione; il terzo nacque dal terzo Giove e da
Giunone e, secondo la tradizione, diresse la fucina di Lemno; il
quarto nacque da quel Memalio che resse le cosiddette isole Vulcanie
presso la Sicilia.
56. Di un Mercurio, figlio del Cielo e della dea che impersona il
giorno, la tradizione ci ha tramandato l'eccitazione sessuale provata
alla vista di Proserpina. Un altro Mercurio è quel figlio di Valente
e di Foronide che, quale divinità sotterranea, viene identificato con
Trofonio; un terzo dio di questo nome è quello nato dal terzo Giove e
da Maia e dalla cui unione con Penelope sarebbe nato Pari. Un quarto
Mercurio ebbe come padre il Nilo e fa parte di quelle divinità il cui
nome gli Egiziani non possono pronunciare; un quinto è quello
venerato dagli abitanti di Feneo. Di lui si narra che avrebbe ucciso
Argo e, in conseguenza di ciò, si sarebbe rifugiato in Egitto e
avrebbe introdotto presso quel popolo le leggi e l'alfabeto: gli
Egiziani lo chiamano Teuth e col suo stesso nome designano il primo
mese dell'anno.
57. C'è un primo Esculapio, figlio di Apollo e venerato in Arcadia,
di cui si dice che abbia inventato la sonda e introdotto l'uso di
legare le ferite; un secondo Esculapio sarebbe quel fratello di
Mercurio che, dopo essere stato colpito dal fulmine, avrebbe ricevuta
sepoltura a Cinosura. Un terzo Esculapio, figlio di Arsippo e di
Arsinoe, ci è presentato
dalla tradizione quale inventore dei purganti e dell'arte del
cavadenti ed in Arcadia, non lontano dal fiume Lusio è ancora
visibile il suo sepolcro ed un bosco sacro a lui dedicato
Il più antico fra gli dèi di nome Apollo è quel figlio di Vulcano e
protettore di Atene di cui s'è già detto; il secondo era un, figlio
di Coribante nato a Creta e che, secondo la tradizione, avrebbe
lottato con lo stesso Giove per il possesso dell'isola; il terzo è il
figlio del terzo Giove e di Latona che dicono si fosse trasferito a
Delfi dal paese degli Iperborei; il quarto sarebbe nato in Arcadia
dove è chiamato Nomione, nome che gli sarebbe stato attribuito per
aver dato le leggi a quel popolo.
58. Anche di Diane ce n'è più d'una. La prima è la figlia di Giove
e di Proserpina che si dice abbia generato l'alato Cupido; più nota
è la seconda che sappiamo nata dal terzo Giove e da Latona; alla
terza la tradizione attribuisce Upis come padre e Glauce come madre ed
i Greci la chiamano spesso Upi, col nome del padre. Abbiamo molti
Dionisi:
il primo è figlio di Giove e di Proserpina; il secondo è figlio dei
Nilo é di lui si dice che avrebbe ucciso Nisa; il terzo avrebbe avuto
Cabiro come padre, avrebbe regnato sull'Asia ed in suo onore sarebbero
state istituite le feste Sabazia; il quarto è figlio di Giove e della
Luna ed a lui si ritiene siano dedicati i riti orfici; il quinto
nacque da Nis o e da Chione e si pensa che per lui siano state
istituite le Trieteridi.
59. Una prima Venere nacque dal Cielo e dalla dea del giorno ed a lei
è consacrato il tempio che avemmo occasione di vedere in Elide; una
seconda sorse dalla spuma del mare e dalla sua unione con Mercurio
sappiamo che nacque il secondo Cupido; la terza, figlia di Giove e di
Dione, andò sposa a Vulcano, ma sappiamo che da lei e da Marte nacque
Antero; la quarta nacque da Siria e da Cipro: prende il nome di
Astarte e si tramanda che abbia sposato Adone.
La prima Minerva è la madre di Apollo di cui s'è già detto; la
seconda è la figlia dei Nilo che gli Egiziani venerano a Sais; la
terza è la nota figlia di Giove di cui si è parlato; la quarta
nacque da Giove e da Corife, figlia dell'Oceano, ed è quella che gli
Arcadi invocano col nome di Korian e che la tradizione ci presenta
quale inventrice delle quadrighe; la quinta è la figlia di Pallante
che si dice abbia ucciso il padre che voleva attentare alla sua
verginità: viene rappresentata coi sandali alati.
60. Il primo Cupido si dice sia figlio di Mercurio e della prima
Diana; il secondo di Mercurio e della seconda Venere; il terzo (che
prende anche il nome di Antero) di Marte e della terza Venere. Queste
e consimili notizie sono state raccolte dall'antica tradizione greca.
Tu ben comprendi che per non turbare il vero sentimento religioso
occorre opporsi a simili leggende. Quelli della vostra scuola invece
non solo non le respingono, ma le rafforzano cercando di interpretare
il significato di ogni singolo particolare. Ma torniamo al punto donde
eravamo partiti.
61. Occorre forse una critica più sottile per confutare queste
argomentazioni? La mente, la fede, la speranza, la virtù, l'onore, la
vittoria, la salute, la concordia e ogni altra consimile entità è
chiaro che sono delle astrazioni, non delle divinità.
Esse infatti o sono in noi, come la mente, la speranza, la fede, la
virtù, la concordia, o costituiscono l'oggetto di una nostra
aspirazione, come l'onore, la salute, la vittoria. Di tutti i fenomeni
nei quali m'è dato scorgere qualche vantaggio per l'uomo vedo anche
consacrate le statue, ma la ragione per cui recherebbero in sé un
principio divino
l'intenderò solo quando me l'avrai ben spiegata. A questa categoria
appartiene soprattutto la Fortuna, una figura inseparabile da quelle
caratteristiche di instabilità e casualità che non si addicono certo
ad un dio.
62. E dimmi un po', che gusto ci trovate a giustificare i miti e ad
interpretare il significato dei nomi? A tale punto difendete leggende
come quella della mutilazione del Cielo ad opera del figlio e
dell'imprigionamento di Saturno pure ad opera del figlio da fare
apparire non solo come uomini assennati, ma come sapienti coloro che
le hanno immaginate.
Nello sforzarvi di interpretare il significato dei nomi, poi, fate
veramente pena: " Saturno perché si sazia di anni, Mavors perché
magna vertit, Minerva perché minuit o perché minatur, Venere perché
venit ad ogni cosa, Cerere dal
verbo gerere ". Non si può immaginare un procedimento più
rischioso.
Di fronte a molti nomi non sapreste che pesci pigliare: come
interpretare infatti il nome di Veiove o di Vulcano?
E' vero che una volta postulata la derivazione di Nettuno dal verbo
nare non vi sarà più alcun nome di cui non si possa ricavare
l'origine sulla base di un'unica lettera, ma in quel caso mi sembra
che tu andassi alla derivi peggio dello stesso Nettuno.
63. Ad una ben inutile fatica si sono sobbarcati Zenone per primo e,
dopo di lui Cleante e Crisippo, nel tentativo di render ragione delle
finzioni mitiche e di chiarire il perché delle denominazioni di ogni
singolo oggetto. Ciò facendo ammettete implicitamente che le cose
stiano molto diversamente da come le pensano gli uomini in quanto
quelli che
vengon chiamati dèi sarebbero Questo tipo di errore ha finito coll'assumere
proporzioni tali che, oltre a divinizzare entità malefiche, si è
istituito anche un culto in loro onore. Così sul Palatino si può
vedere il tempio della Febbre, presso il sacrario dei Lari quello di
Orbona e sull'Esquilino è pure visibile l'altare della Mala Fortuna.
64. Sia bandito pertanto dalla filosofia siffatto errore si che,
quando si parla degli dèi immortali, si dicano cose degne degli dèi
immortali. A questo riguardo io ho la mia opinione da esprimere, ma
non vedo come possa accordarsi con la tua.
Secondo te Nettuno sarebbe uno spirito intelligente diffuso nel mare e
lo stesso sarebbe Cerere per la terra. lo però non solo non riesco a
comprendere codesta intelligenza del mare o della terra, ma neppure
riesco ad immaginarla.
Conviene pertanto che mi ispiri ad altre fonti per provare l'esistenza
e la natura degli dèi quali tu li concepisci.
65. Consideriamo ora le successive questioni: in primo luogo se il
mondo sia retto dalla provvidenza divina ed in secondo se gli dèi
provvedano alle necessità dell'uomo. Questi due soli punti, fra
quelli da te enumerati, restano ormai da esaminare e, se siete
d'accordo, penso che se ne debba discutere con una certa attenzione.
"Per me sono più che d'accordo", interruppe Velleio.
"Mi aspetto qualcosa di ancor più importante e concordo
perfettamente con quanto già detto".
E Balbo: " non voglio interromperti, Cotta, e mi riservo di
risponderti in altra occasione. Sono certo che ti costringerò a
concordare con me. Mal**" La cosa così non può andare: grande
è la lotta. Mi sarei forse Piegata a supplicarlo con sì blanda
preghiera se non avessi il mio scopo?"
66. Non ti sembra che faccia male i suo , calcoli e che si procuri da
se sola una grossa disgrazia? A quale acutezza razionale è invece
ispirata l'altra frase:" Per chi vuole ciò che vuole il
risultalo sarà quale egli l'avrà loggiato "un verso,
quest'ultimo, che è causa di tutti i mali. " Oggi costui,
fuorviato nella sua mente, mi ha consegnato delle
chiavi con le quali potrò dar sfogo a tutta la mia ira e riversare la
rovina su di lui, a me il dolore, per lui il pianto; la sventura a
lui, a me l'esilio " Orbene, codesta ragione che voi proclamate
concessa solo all'uomo per divina benevolenza, le bestie non l'hanno;
67. vedi adunque che bel dono ci hanno fatto gli déi? La stessa
Medea, mentre cerca di sottrarsi all'inseguimento del padre e
abbandona la patria: " Quando il padre sta per raggiungerla ed è
già sul punto di afferrarla senza indugio uccide il ragazzo e ne fa a
brani le membra e ne disperde qua e là il corpo nei campi col preciso
scopo di guadagnar
tempo nella fuga mentre il padre va raccogliendo le sparse membra del
figlio si che il dolore rallenti l'inseguimento paterno ed ella si
procuri col fratricidio la salvezza "
68. A costei come non mancò lo spirito criminale, così non venne
meno la ragione. E che dire di quell'altro personaggio che appresta al
fratello l'orribile banchetto? Non è forse impegnato in tutta una
serie di considerazioni dettate dalla ragione? " Qualcosa di più
grosso, una più grave atrocità io debbo perpetrare per colpire e
schiacciare il suo duro cuore ".
Neppure va sottovalutato l'altro che: " non ne ebbe abbastanza di
aver adescato la moglie (del fratello) " e a proposito del quale
Atreo dice giustamente e con piena aderenza alla realtà: "
Quando si è al potere questo io penso che sia il peggior pericolo.,
che si violentino le matrone regali, che si contamini la stirpe, che
si mescoli il sangue ". Ma con quanta astuzia questo medesimo
delitto viene preparato dal fratello che si serve dell'adulterio per
impossessarsi dei potere: " A ciò aggiungi (dice Atreo) che una
volta Deite osò sottrarre dal mio palazzo un animale portentoso che
il padre dei celesti mi invia quale conferma del mio potere: un
agnello dal vello d'oro, il più bello dei gregge; ed in questa
impresa prese come complice mia moglie "
69. Non ti sembra che costui abbia usato un'estrema efferatezza
proprio per aver sfruttato al massimo la sua facoltà razionale? E di
questi delitti non abbondano soltanto le scene, anzi la vita di tutti
i giorni ne annovera dei peggiori. Le nostre case private, il foro, la
curia, i frequentatori del Campo Marzio, i nostri alleati, le nostre
province, tutti sanno che se della ragione si può fare un retto uso,
se ne può fare anche uso criminoso e che pochi e di rado si attengono
al primo mentre moltissimi e sempre ricorrono al secondo. Meglio
sarebbe stato che gli dèi ci avessero negato il dono della ragione
piuttosto che concedercelo a costo di tanto danno!
Il vino di rado giova agli ammalati e il più delle volte li
danneggia: è perciò preferibile che non ne facciano uso piuttosto
che esporsi ad un serio pericolo con l'unica prospettiva di un lieve
vantaggio. Allo stesso modo sarebbe forse preferibile che codesto
rapido moto del pensiero, che codesta acutezza di penetrazione e
rapidità di collegamenti che
chiamiamo ragione e che, se per molti è causa di rovina, solo per
pochi è giovevole, fosse del tutto negata all'uomo iuttosto che
essergli concessa con tanta abbondanza e generosità.
70. Tanta abbondanza e generosità. Se dunque il presunto interesse
degli dèi nei riguardi dell'umanità si è concretizzato nel dono
della ragione e evidente che esso si è esercitato solo nei riguardi
di coloro cui è stata data la capacità di farne buon uso: e questi
ultimi, anche ammesso che ve ne siano, vediamo essere assai pochi. Ma
è assurdo che gli dèi immortali si siano preoccupati solo di una
minoranza. E' quindi giocoforza concludere che non si sono preoccupati
di alcuno.
A questo argomento siete soliti obiettare che se molti fanno cattivo
uso di un dono degli dèi ciò non significa che questi non abbiano
fatto del loro meglio per aiutarci: anche dell'eredità paterna molti
fanno cattivo uso, ma ciò non esclude che essi abbiano ricevuto un
beneficio dal, padre.
E chi lo nega? Che analogia c'è in questo paragone col nostro
problema? Quando Deianira fece consegnare ad Ercole la tunica intinta
nel sangue del Centauro non volle certo fargli dei male e non aveva
sicuramente buone intenzioni quel tale che con la spada spaccò a
Giasone di Fere un bubbone che i medici non erano riusciti a guarire!
Capita spesso di giovare quando si vorrebbe nuocere e di nuocere
quando si vorrebbe giovare. Non risulta dal dono l'intenzione dei
donatore né si può inferire dal buon uso che se ne fa la buona
intenzione di chi l'ha fatto.
71. Non c'è atto di avarizia, di lussuria, di criminalità che non
sia intrapreso senza una previa deliberazione o che non sia condotto a
termine senza l'ausilio del pensiero e della riflessione. Ogni
opinione è frutto di ragione e si tratterà di retta ragione se
l'opinione e vera e di ragione distorta se l'opinione è falsa.
Ma dalla divinità noi riceviamo solo la ragione pura e semplice
(ammesso che la riceviamo): siamo noi in seguito che la rendiamo buona
o cattiva. La ragione non ci è stata concessa in beneficio a guisa di
un lascito testamentario. Che altro gli dèi avrebbero potuto donare
agli uomini se non la ragione qualora avessero voluto far loro del
male? Quali germi d'ingiustizia, d'intemperanza, di timore
allignerebbero fra gli uomini se non vi fosse la ragione a fomentare
tali vizi?
Poco più addietro abbiamo ricordato i casi di Medea e di Atreo,
personaggi eroici che meditano i loro nefandi delitti con un preciso
calcolo dei vantaggi e degli svantaggi.
72. Che dire poi delle frivole vicende delle commedie? Non si svolgono
tutte sotto il segno della ragione? Con quanta accuratezza ragiona
quel personaggio dell'Eunuco:" che farò? ... mi ha cacciato ed
ora mi richiama; debbo tornare? No certo, neppure se me ne scongiura
". E il noto personaggio dei Sinefebi non si perita di
polemizzare con argomentazioni al modo degli Academici contro il
comune buon senso e di affermare che: " Quando si è molto
innamorati e Si ha U12 501dO è bello avere un padre avaro, burbero
coi figli, , intratiabile e che non ti voglia bene né si curi di
te"
73. A sostegno di questa incredibile affermazione adduce anche qualche
argomento: " 0 l'inganni strappandogli un prestito o intercetti
un suo debitore con falsa lettera o lo prendi alla sprovvista, tutto
spaurito, con l'ausilio di un servo; con quanta gioia alla fine
dissiperai ciò che sei riuscito a sottrarre ad un padre avaro!"
Il medesimo personaggio passa quindi a sostenere che un padre
indulgente e generoso è una rovina per un figlio innamorato: "
Non so in che modo ingannarlo, che cosa tentare di sottrargli, le
inganno o quale intrigo macchinare contro di lui: a tal punto la
generosità paterna ha reso inutili i miei' inganni, le mie astuzie, i
miei raggiri " Orbene, tutti codesti inganni, codeste astuzie,
codesti raggiri non sono opera della ragione? Un bel regalo davvero ci
hanno fatto gli dèi, tanto da autorizzare l'affermazione di Formione:
" Fa venire il vecchio.. ho già approntato dentro di me tutti i
miei piani "
74. Ma usciamo dal teatro e rechiamoci al foro. Il pretore va ad
occupare il suo scranno. Che cosa deve stabilire?
Chi abbia incendiato l'archivio. Trattasi di un delitto alquanto
misterioso, ma Quinto Sosio, un illustre cavaliere romano proveniente
dall'agro Piceno, ha ammesso di essere lui il responsabile. Deve anche
giudicare chi abbia falsificato gli atti pubblici.
Anche di questo reato salta fuori il responsabile, Lucio Aleno che ha
attuato la falsificazione imitando la scrittura dei primi sei
segretari dei questore. Si può dare un uomo più solerte di costui?
Considera gli altri processi: quelli dell'oro di Tolosa e della
congiura giugurtina. Riesamina le cause dibattute in passato come
quella intentata contro Tubulo per corruzione in giudizio e, più di
recente, la rogazione di Peducco per un caso di incesto. Aggiungi i più
recenti casi di aggressione ad opera di sicari, di veneficio, di
peculato nonché le questioni testamentarie suscitate da una legge
recente. V'è poi la ben nota formula di accusa: "Affermo che il
furto è avvenuto col tuo aiuto e per tua iniziativa"; le
numerose cause relative alla mala fede nell'esercizio della tutela,
nell'adempimento di un mandato, nelle relazioni con un socio e nel
rapporto fiduciario e tutti gli altri reati che si commettono ad onta
della parola data nella compravendita e nella locazione. Viene quindi
il caso della legge Pletoria sull'intervento di un pubblico
procedimento giudiziario in una questione privata e quella che è la
rete di tutte le frodi, la causa per truffa, introdotta dal nostro
amico Aquilio che ha luogo ogni qual volta si simula un fatto diverso
da quello reale.
75. Possiamo davvero pensare che gli dèi si siano fatti seminatori di
così grandi mali? E' un fatto che se gli dèi hanno fatto dono agli
uomini della ragione hanno installato loro anche la malizia che altro
non è se non uno scaltro e ingannevole sistema di nuocere. Sempre gli
dèi hanno quindi instillato loro anche la frode, la criminalità e
tutto ciò che
è strettamente legato alla facoltà razionale. Come la vecchia del
dramma esclama:
"Oh se nel bosco dei Pelio non fossero cadute sotto i colpi delle
scuri le travi d'abete!".
così si addice anche a noi ribattere: "Oh se gli dèi non
avessero donato agli uomini codesta astuzia di cui pochi sanno fare
buon uso, e sono essi stessi le vittime dì altri che cadono nello
stesso errore, e che molti usano per fini disonesti, sì che il divino
dono della ragione e della saggezza appare un dono all'uomo per
ingannare, non per fare del
bene".
76. Voi però continuate ad insistere che questa è colpa degli uomini
e non degli dèi. E' come se un medico deplorasse la gravità della
malattia o un timoniere la violenza della tempesta; è vero che in tal
caso si tratterebbe di semplici uomini, ma il loro atteggiamento
sarebbe comunque ridicolo:" chi ricorrerebbe a voi "si
potrebbe chiedere "se non esistessero questi inconvenienti?"
Con gli dèi si può polemizzare più agevolmente: "Tu affermi
che la colpa sta nei difetti dell'uomo. Ebbene, avresti potuto dare
all'uomo una ragione che ne eliminasse i difetti e le colpe".
Ma che possibilità ha un dio di sbagliare? Noi uomini lasciamo le
nostre eredità nella speranza di fare cosa buona, e in questo
possiamo ingannarci. Ma come può ingannarsi un dio? Forse come si
inganno il sole quando fece salire sul carro il figlio Fetonte o come
si ingannò Nettuno quando Teseo perdette il figlio Ippolito grazie al
privilegio concessogli dal dio di veder esauditi tre desideri?
77. Ma queste sono favole di poeti e noi vogliamo essere dei filosofi
che trattano di fatti reali, non di finzioni. Gli stessi dèi
immaginati dai poeti sarebbero tacciati di una benevolenza colpevole
se avessero saputo di nuocere ai loro figliuoli con quelle
concessioni. Se è vero ciò che era solito sostenere Aristone di Chio,
che cioè i filosofi sono dannosi a quei discepoli che interpretano
male le loro affermazioni di per sé esatte (è un fatto che dalla
scuola di Aristippo possono uscire degli incontinenti e da quella di
Zenone degli aridi), se cioè i frequentatoti di una scuola dovessero
uscirne traviati per errata interpretazione dei discorsi dei filosofi,
più conveniente sarebbe per costoro tacere piuttosto che danneggiare
i propri uditori.
78. Allo stesso modo se gli uomini sfruttano a scopo di inganno e di
malizia la ragione che gli dèi hanno loro concessa a fine di bene,
meglio sarebbe stato negare che concedere tale privilegio. Come
sarebbe colpevole quel medico che avesse ordinato ad un ammalato di
bere del vino pur sapendo che questi ne berrebbe di troppo puro con
imminente pericolo di vita, così andrebbe rimproverata codesta vostra
Provvidenza per aver concessa la ragione a gente di cui sapeva in
anticipo che se ne sarebbe servita in modo errato e disonesto. A meno
che voi ammettiate che essa non lo sapesse. E fosse davvero così! Ma
voi non oserete affermare questo: so quale stima avete del suo nome.
79. Ma questo argomento può ormai considerarsi concluso. Se infatti
è vero che la stoltezza, per concorde parete dei filosofi, è un male
peggiore di tutti i mali della sorte e dei corpo messi insieme, e se
è vero che nessuno riesce a raggiungere la saggezza, se ne deve
concludere che noi tutti, che, a sentirvi, godremmo della protezione
divina, siamo immersi nei mali peggiori. Come è cosa indifferente che
nessuno sia in buona salute o che nessuno possa esserlo, cosi non vedo
che differenza vi sia fra il dire che nessuno è sapiente e
l'affermare che nessuno può esserlo.
Noi su un argomento più che evidente abbiamo speso troppe parole;
Telamone invece con un sol verso chiarisce nel modo più esauriente la
prova che gli dèi si disinteressano dell'uomo:" Ma se si
occupassero dell'uomo, male andrebbe per i malvagi e bene per i buoni:
ma ciò è ben lungi dall'accadere ". Se, gli dèi avessero
voluto veramente
prendersi cura del genere umano avrebbero dovuto create gli uomini
tutti buoni;
80. o almeno, prendersi cura dei buoni: perché i Cartaginesi
distrussero in Spagna la vita di due fra gli Scipioni, uomini di
grandissimo coraggio e virtù? Perché Massimo dovette portare a
seppellire il proprio figlio già console?
Perché la battaglia di Canne costò la vita a Paolo? Perché il
corpo. di Regolo fu dato in pasto alla crudeltà dei Cartaginesi?
Perché le pareti domestiche non furono sufficienti a difendere
l'Africano?
Ma questi e numerosi altri casi appartengono al passato. Vediamo ora
quelli più vicini a noi. Perché il mio zio materno Publio Rutilio,
benché puro di ogni colpa e fornito di profonda cultura, si trova ora
in esilio? Perché il mio amico Druso fu ucciso nella sua casa? Perché
quello specchiato esempio di temperanza e di prudenza che fu il
Pontefice
Massimo Publio Scevola cadde ucciso dinanzi alla statua di Vesta?
Perché anche in precedenza tanti fra i primi cittadini furono fatti
uccidere da Cinna? Perché il più perfido di tutti Gaio Mario, poté
condurre a morte un uomo di altissima dignità quale Quinto Catulo?
81. Mi mancherebbe il tempo se volessi enumerare tutti i buoni che
fecero una cattiva fine o se dovessi ricordare a quanti malvagi le
cose andarono nel migliore dei modi. Perché Mario poté morire
vecchio in casa sua dopo aver ottenuto così felicemente il consolato
per la settima volta? Perché Cinna, il più crudele di tutti, poté
dominare cosi a
lungo? " Ma ne pagò il fio " mi si dirà.
D'accordo, ma sarebbe stato meglio vietargli ed impedirgli di far
morire tanti degnissimi uomini piuttosto che infliggergli una tardiva
punizione. Un uomo senza scrupoli come Quinto Vario fece una fine
orribile e dolorosa; ma se ciò avvenne per aver trucidato Druso ed
avvelenato Metello meglio sarebbe stato salvare quegli uomini che
punire
Vario. Dionisio tiranneggiò per trentotto anni una ricchissima e
felicissima città;
82. proprio come prima di lui aveva già fatto Pisistrato nel fiore
stesso della Grecia. " Ma Falaride ed Apollodoro pagarono di
persona ". E' vero, ma solo dopo aver tormentato ed ucciso
innumerevoli uomini. Anche molti predoni finiscono con lo scontare i
loro delitti, ma non si può certo dire che meno numerose siano le
loro vittime.
Sappiamo che Anassarco, discepolo di Democrito, fu crudelmente
straziato dal tiranno di Cipro e che Zenone di Elea fu ucciso fra i
tormenti; che dire di Socrate sulla cui fine sono solito piangere
quando leggo Platone? Vedi dunque che gli dèi, se vedono davvero le
cose degli uomini, non fanno alcuna distinzione?
83. Diogene il Cinico era solito affermare che Arpalo, considerato a
quei tempi come un pirata fortunato, costituiva per la sua lunga
fortuna una vivente testimonianza contro gli dèi. Dionisio, di cui s'è
già detto, dopo aver depredato a Locri il tempio di Proserpina, stava
navigando verso Siracusa. Visto che il viaggio procedeva bene con il
favore del vento: " Vedete " disse ridendo "o amici,
che bella navigazione gli dèi immortali offrono ai sacrileghi?
". Da uomo acuto quale era, considerata bene ogni cosa, perseverò
nello stesso atteggiamento.
Sbarcato nel Peloponneso e giunto nel tempio di Giove Olimpio spogliò
la statua dei Dio del pesante mantello d'oro di cui l'aveva ornata
Gelone servendosi del bottino tolto ai Cartaginesi e non si peritò di
fare dello spirito sulla cosa dicendo che un mantello d'oro è
fastidioso d'estate e freddo d'inverno: rivesti perciò la statua di
un mantello di lana
col pretesto che essa si adattava a tutte le stagioni. Analogamente ad
Epidauro ordinò che si asportasse la barba d'oro di Esculapio col
pretesto che non era bello che il figlio avesse la barba quando in
tutti i templi il padre era raffigurato senza barba.
84. Fece anche asportare da tutti i templi le mense d'argento e poiché
queste recavano, secondo l'antico uso greco, l'iscrizione " degli
dèi buoni " diceva di voler fruire di questa loro bontà. Non sì
faceva neppure scrupolo di prelevare le piccole Vittorie d'oro, le
tazze e le corone sorrette dalle mani protese delle statue e affermava
che questa era una accettazione, non una sottrazione, in quanto
sarebbe stata una sciocchezza chiedere dei beni agli dèi per poi non
volerli accettare quando sono essi stessi ad offrirceli con le loro
stesse mani.
Si tramanda anche che il tiranno portasse al mercato gli oggetti tolti
dai templi e li vendesse per mezzo di un banditore e che quindi,
riscosso il danaro, ordinasse che ciascuno prima di un giorno
stabilito riportasse l'oggetto sacro acquistato nel suo tempio: in tal
modo all'empietà nei riguardi degli dèi aggiunse un sopruso a danno
degli uomini.
Ebbene, né Giove Olimpio lo colpì con il fulmine né Asclepio lo
fece morire con una lunga e debilitante malattia, ma morì nel suo
letto e fu adagiato su un rogo regale e lasciò in eredità al figlio
come giusto e legittimo quel potere che si era procurato col delitto.
85. E' mio malgrado che faccio questo discorso che sembra autorizzare
al crimine. E vi sarebbe davvero questo rischio se non fosse una
sufficiente remora, anche senza l'intervento divino, la stessa
coscienza del bene e del male, tolta la quale tutto va in rovina. Come
in una società familiare o statale non si può dire che vi sia ordine
e disciplina se non vi sono premi per le buone azioni e sanzioni per
le cattive, così non può esistere un divino reggimento del mondo in
vista dell'uomo se non si fa distinzione fra buoni e malvagi.
86. " Ma gli dèi " si obietterà " trascurano le
inezie e non si prendono cura dei campicelli e delle vigne di ciascuno
né è il caso di tirare in causa Giove se la malattia o la grandine
hanno nuociuto a qualcuno; neppure nei nostri regni i sovrani si
curano di ogni minima cosa ". Così ragionate voi, quasi che io
poco fa compiangessi il podere di Rutilio in quel di Formia e non la
sua perdita di ogni' sicurezza!
E' ferma opinione degli uomini che i beni esteriori come i vigneti, i
campi, gli uliveti, l'abbondanza di cereali e di frutti e ogni altro
vantaggioso evento della loro vita siano dovuti agli dèi, ma nessuno
mai afferma di aver ricevuto da un dio la virtù.
87. Né la cosa deve stupire: è un fatto che siamo lodati in grazia
della nostra virtù e di essa a buon diritto ci vantiamo, il che non
accadrebbe se essa fosse un dono divino e non dipendesse da noi.
Quando invece riceviamo degli onori o un incremento del nostro
patrimonio o quando riusciamo ad ottenere qualche vantaggio dovuto
alla sorte o a
liberarci da qualche guaio, allora sì che ringraziano gli dèi senza
assumercene alcun merito.
Chi mai ha ringraziato gli dèi per aver fatto di lui una brava
persona? Li ringrazierà invece per esser ricco, onorato, incolume; e
proprio per questo gli uomini invocano Giove Ottimo Massimo: ciò di
cui lo ringraziano non è certo di averli resi giusti, temperanti e
saggi, bensì di far di loro degli uomini sani, liberi da ogni male,
ricchi, agiati.
88. Nessuno ha mai promesso ad Ercole la decima parte dei suoi
proventi in cambio di divenire sapiente. Si dice, è vero, che
Pitagora immolasse un bue alle Muse ogni qual volta faceva qualche
scoperta nel campo della geometria, ma io noti credo a questa
tradizione: basti pensare che Pitagora si rifiutò di sacrificare una
vittima persino ad Apollo Delio per non macchiare di sangue l'altare.
Per tornare al mio argomento, è comune opinione di tutti i mortali
che la fortuna bisogna invocarla dalla divinità, ma la sapienza
occorre conquistarsela da soli. Possiamo a nostro piacimento
consacrare templi alla Mente, alla Virtù ed alla Fede, ma dobbiamo
anche constatare che queste doti sono in noi stessi: agli dèi
chiederemo il dono della speranza,
della salute, della ricchezza, della vittoria. La conclusione è
dunque, come affermava Diogene, che la prosperità e la fortuna dei
malvagi smentiscono in pieno la forza e potenza divina.
89. " Ma si dà anche il caso " mi si obietterà " che
i buoni riportino dei successi ". Noi allora pigliamo la palla al
balzo e ne attribuiamo senza criterio il merito agli dèì immortali!
Diagora, quello che chiamano l'ateo, venne un giorno a Samotracia e
così fu interpellato da un amico: "Tu che ritieni che gli dèi
si disinteressino delle vicende umane, non ti
accorgi, osservando le tavolette votive, quanti uomini in seguito alle
loro preghiere sfuggirono alla violenza della tempesta e giunsero
salvi in porto? ". " E' proprio così " rispose Diagora
" dato che in nessun luogo poterono farsi dipingere quelli che
fecero naufragio e perirono in mare ".
Durante un viaggio per mare lo stesso Diagora, di fronte alla
costernazione dei piloti che, atterriti dalla tempesta, attribuivano
quella loro dis grazia al fatto di averlo accolto sulla nave, fece
loro osservare che molte altre navi in navigazione sulla medesima
rotta si trovavano in pericolo e chiese loro se per caso anche su
quelle viaggiasse un Diagora. Sta di fatto che agli effetti della
buona e della cattiva fortuna non hanno alcuna importanza le tue doti
morali e la tua condotta di vita.
90. Si obietterà che gli dèi, come i re, non possono accorgersi di
tutto. Ma che razza di paragone è questo? Se un re sbaglia
consapevolmente è gravemente in colpa;
ma un dio non ha neppure la scusa dell'ignoranza. Voi però ne
imbastite una bella difesa ed affermate che la potenza divina è tale
che, se qualcuno riesce con la morte ad evitare la punizione del suo
delitto, lo sconteranno i figli, i nipoti, i posteri. Bella giustizia
davvero è quella degli dèi! Sopporterebbe uno Stato l'autore di una
siffatta legge in forza della quale il figlio o il nipote venissero
puniti per un delitto commesso dal padre o dal nonno?
" Come por fine alla reciproca strage dei dis cendenti di Tantalo?
Come saziare il desiderio di vendetta per la morte di Mirtilo ".
91. E' difficile dire se siano stati i poeti a pervertire gli Stoici o
gli Stoici a dare credito ai poeti: sta di fatto che entrambi dicono
delle enormità. L'uomo colpito dai giambi di Ipponatte o ferito dai
versi di Archiloco non doveva certo agli dèi ma a se stesso i propri
guai. Quando vediamo rappresentata la passione di Egisto e di Paride
non ne consideriamo certo responsabili gli dèi, ché è quasi la voce
stessa della colpa quella che noi ascoltiamo. La riacquistata salute
da parte di tanti uomini più che ad Esculapio io l'attribuisco ad
Ippocrate e la costituzione spartana penso sia stato Licurgo piú che
Apollo ad imporla alla città. Si suol dire che Critolao distrusse
Corinto ed Asdrubale Cartagine. Ma furono essi a spegnere quei due
fulgidi splendori, non già qualche dio irato, dato che per voi un dio
non può in alcun modo adirarsi.
92. Ma avrebbe potuto certamente intervenire e salvare città cosi
grandi ed illustri. Voi stessi siete soliti affermare che non v'è
nulla che un dio non possa fare e, per giunta, senza fatica alcuna.
Come le membra dell'uomo si muovono senza alcuno sforzo sotto
l'impulso del pensiero e della volontà, così al cenno divino ogni
cosa può prendere forma, muoversi e subire delle trasformazioni.
E questo voi affermate non spinti da anile superstizione, ma sulla
base di precise leggi naturali. E' infatti vostra convinzione che la
materia primigenia da cui derivano e di cui constano gli esseri tutti
sia di per sé suscettibile di piegarsi e di trasformarsi sì che non
v'è nulla ch'essa non possa foggiare o trasformare anche in un tempo
minimo, ma
che sia la provvidenza divina a darle una forma ed una regola. Essa è
pertanto in grado di fare ciò che vuole, dovunque si volga. Non resta
quindi che concludere o che essa non conosce le sue possibilità o che
non si cura delle cose umane o che non sa ciò che è il meglio.
93. " Essa non si cura " si obietterà " dei singoli
uomini ". La cosa non stupisce: neppure delle città si cura, e
non solo delle città ma neppure dei popoli e delle nazioni. Che c'è
quindi di strano se trascura l'intero genere umano?
Eppure voi, mentre da una parte affermate che gli dèi non si curano
delle minuzie, non vi peritate poi nell'attribuire agli dèi la
funzione di assegnare e distribuire agli uomini i sogni (e la faccenda
riguarda proprio te, dato che sono quelli della tua scuola a sostenere
la veridicità dei sogni) e di ritenere che le preghiere vengono
ascoltate. La preghiera è un atto individuale e implica che la mente
divina si occupi singolarmente di ciascuno: vedete quindi che non è
così affaccendata come pensavate!
Ammetti ora che essa allarghi il suo campo d'azione, che faccia
ruotare il firmamento, che si rivolga verso la terra, che regoli i
moti del mare: come può sopportare che tanti dèi se ne stiano
inattivi senza fare nulla? Perché non dà l'incarico di provvedere
alle faccende umane a qualcuno degli innumerevoli dèi disoccupati di
cui tu, Balbo, hai parlato nella tira esposizione? Questo è tutto
quello che io avevo da dire sulla natura degli dèi, non già per
giungere ad una assoluta negazione ma per mettere in evidenza
l'oscurità del problema e la difficoltà di dargli una soluzione.
94. Con queste parole Cotta pose fine al suo dire. Lucilio allora:
" Sei stato un po' troppo violento - disse - o Cotta, nella tua
polemica contro quella teoria della Provvidenza che gli Stoici hanno
elaborato con tanta pietà e previdenza. Ora però s'è fatto tardi e
spero che ci concederai qualche giorno per preparare la risposta.
La mia discussione con te riguarda la difesa dei valori più profondi
della religione e della famiglia, dei templi e dei sacrari degli dèi,
delle mura della città che voi pontefici considerate sacre e ponete
maggior cura nel difendere la città col sentimento religioso che a
mezzo di fortificazioni. Sono valori cui lo, finché avrò vita,
considererò empio
rinunciare ".
95. Al che Cotta: "Per quanto mi concerne non desidero altro che
essere confutato dal nostro Balbo: ho preferito limitarmi a discutere
gli argomenti in questione senza prendere una precisa posizione e son
già certo che tu riuscirai facilmente ad avere la meglio su di
me". "Su questo non c'è dubbio" interloquì allora
Velicio "dal momento che per lui persino i sogni ci vengono da
Giove, quei sogni che hanno certo maggiore consistenza delle
disquisizioni stoiche sugli dèi".
Ciò detto ci allontanammo e se a Velleio sembrava più accettabile il
discorso di Cotta, a me quello di Balbo appariva decisamente più
vicino alla verità.
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Storiografia Primo
Lib. Secondo Lib.
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